La leggenda di Lady Spread e un gruzzolo da spendere bene
Il Tesoro ha festeggiato i nuovi minimi storici nei tassi dei Btp, collocando all’1,2 per cento i titoli quinquennali e al 2,6 quelli decennali: un taglio di 16 e 21 punti base e il terzo record in tre giorni, dopo Ctz e Bot semestrali.
Il Tesoro ha festeggiato i nuovi minimi storici nei tassi dei Btp, collocando all’1,2 per cento i titoli quinquennali e al 2,6 quelli decennali: un taglio di 16 e 21 punti base e il terzo record in tre giorni, dopo Ctz e Bot semestrali. Eppure lo spread è rimasto intorno ai 150 punti: sopra quota 143 toccata il 9 giugno, benché quel giorno i rendimenti di mercato dei Btp decennali fossero del 2,81 per cento, venti punti base più di ieri. Il che dimostra quanto Lady Spread sia anche un’illusione ottica, che non ricalca esattamente il minore o maggior costo del debito, né è “il termometro della fiducia” come la descrivono i media: ma solo la differenza tra Italia e Germania. Ad aprile 2010, quando l’Europa s’impiccò alla crisi greca, lo spread era sotto i 100 punti; all’inizio del 2007 nonostante il governo ballerino di Romano Prodi fu quasi nullo, ma i tassi dei decennali erano oltre il 4 per cento.
Eppure sia il governo tecnico di Mario Monti sia quello del “cacciavite” di Enrico Letta costruirono i Documenti di economia e finanza in gran parte sulle previsioni dello spread. Monti lo fissò a 300, il lettiano Fabrizio Saccomanni mise l’asticella a 200 puntando a un tasso del 3,5 per cento. Andarono oltre le attese e Letta si trovò due miliardi in più, che però servirono per coprire, assieme ad altre entrate raggranellate in fretta e furia sotto gli strali della Commissione di Bruxelles, spese correnti: dall’operazione Imu alla cassa integrazione in deroga. Polverizzando il beneficio. Ora tornano gli inviti a tagliare la spesa in maniera strutturale, come quello di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera: l’economista si domanda che fine abbiano fatto Carlo Cottarelli e la sua spending review, definiti un “mistero”. In particolare la riforma della Pubblica amministrazione, smontata in fase di scrittura dai sindacati del pubblico impiego (su mobilità e cambi di mansione) e da lobby come quella della giustizia amministrativa mobilitata a salvare i Tar. Per fare le riforme strutturali servono soldi e Matteo Renzi è andato e cercarli nella flessibilità europea. A fine anno però potrebbe trovarsi con il gruzzolo della minore spesa per interessi: nel Def firmato dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, il risparmio era stimato in 3,5 miliardi, cifra che potrebbe salire oltre i 4.
Nei primi sei mesi dell’anno il costo medio della raccolta su tutte le durate dei titoli pubblici è stato dell’1,58 per cento, un quarto in meno del 2013, meno della metà del 2012. Ma il trend non è destinato a durare: i ribassi riguardano tutta Europa, e c’è chi risparmia più di noi pur essendo partito in svantaggio (Spagna e Irlanda) ma avendo realizzato riforme strutturali, i tassi rasoterra sono conseguenza delle politiche accomodanti della Bce, che prima o poi finiranno mentre da settembre dovrebbero coinvolgere, oltre alle obbligazioni pubbliche, anche quelle private. Dal 2016, poi, incombe il meccanismo di riduzione automatica del debito. Dunque che fare del tesoretto frutto non dello spread ma dei minori interessi? Ci sarebbero altri differenziali di cui occuparci: per esempio quello con la Spagna, che fa meglio del previsto sia in termini di pil (più 0,6 nel secondo trimestre) sia di creazione di nuovi posti di lavoro (più 400 mila). Oppure lo spread delle nascite: l’Italia, come segnalato anche dal Fmi, non ha nessuna riforma in cantiere contro il calo demografico, con un tasso di natalità (9 per cento) inferiore a quello di mortalità (9,9) e ormai affidato quasi esclusivamente agli immigrati, rispetto al 15,7 dell’Irlanda e al 12,8 della Gran Bretagna. Questi soldi si potrebbero spendere oppure semplicemente risparmiare. Tutto tranne che impiegare il gruzzolo guadagnato come fosse un tappabuchi, con la conseguenza di dilapidarlo rapidamente senza nemmeno un perché.
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