Soldi, terrore, riscatti
New York Times e Wall Street Journal spiegano che i governi europei riempiono le casse di al Qaida trattando con i terroristi e assecondando il “business degli ostaggi”.
La guerra santa costa, ma grazie ad Allah, abbiamo un bottino che ci consente di coprire le spese, scriveva nell’agosto del 2012 Abu Basir, nom de guerre di Nasseir al Wuhayshi, capo di al Qaida nella Penisola arabica, ad Abdelmalek Droukdel, leader di al Qaida Maghreb. Il New York Times ha pubblicato il carteggio tra questi due signori del jihad in cui si parla di strategia, di comunicazione e di contabilità – contabilità di “martiri” e contabilità di soldi. Nella colonna delle entrate, metà dei fondi deriva dal business degli ostaggi, “rapire stranieri è un bottino facile, che definirei un commercio profittevole e un tesoro prezioso”, scrive Abu Basir.
Formalmente pagare i riscatti ai terroristi è vietato a livello internazionale da dopo l’11 settembre. C’è una risoluzione delle Nazioni Unite che dice di evitare di dare soldi in cambio di ostaggi e c’è un recente accordo firmato dai paesi del G8 per fermare quello che gli esperti chiamano “circolo vizioso” e che per al Qaida è, appunto, “un commercio profittevole”. Ma nella realtà le cose vanno diversamente. Nel giro di qualche giorno, New York Times e Wall Street Journal hanno pubblicato due grandi articoli in cui raccontano il business degli ostaggi, soprattutto nel nord Africa, con numeri e storie e con la smentita ufficiale dei ministeri dei principali paesi europei – anche dell’Italia – sull’utilizzo dei riscatti per salvare concittadini rapiti dai terroristi.
Secondo le fonti del New York Times – l’autore dell’articolo è Rukmini Callimachi, è a Bamako: quando lavorava per l’Associated Press, Callimachi trovò migliaia di pagine sui rapimenti in un covo di al Qaida nel nord del Mali – al Qaida e i suoi affiliati hanno raccolto 125 milioni di dollari in riscatti dal 2008 a oggi, di cui 66 milioni pagati soltanto nel corso dello scorso anno. Il Wall Street Journal cita David S. Cohen, sottosegretario del Tesoro americano che si occupa di terrorismo, il quale dice che soltanto i paesi che, secondo gli Stati Uniti, sponsorizzano il terrorismo sono più munifici del business degli ostaggi: i riscatti sono diventati la principale fonte di finanziamento per i gruppi legati ad al Qaida nell’Africa del nord, in Yemen, in Siria e in Iraq. Secondo Cohen, 120 milioni di dollari in riscatti sono arrivati a questi gruppi dal 2004 al 2012, e la filiale yemenita di al Qaida da sola ha raccolto 20 milioni di dollari.
I numeri non combaciano alla perfezione, ma l’ordine di grandezza è stabilito: si parla di milioni di dollari. Nel 2003 ogni ostaggio valeva circa 200 mila dollari, ora si arriva anche a 10 milioni, ed è il motivo per cui i tesorieri di al Qaida parlano di “bottino facile” (secondo fonti europee, già nel 2003 le richieste andavano da un milione a 2 milioni e mezzo di dollari e già dal 2004 i terroristi pretendevano di essere pagati in euro). Gli europei sono i più generosi – spesso i pagamenti arrivano sotto forma di aiuti umanitari o attraverso alleati locali – mentre Stati Uniti e Regno Unito hanno una maggiore resistenza.
Secondo Jean-Paul Rouiller, direttore del Geneva Centre che si occupa di terrorismo, al Qaida “targettizza i rapimenti sulla base della nazionalità”: francesi, austriaci, spagnoli e svizzeri sono i più ricercati, perché solitamente vengono riportati a casa in cambio di ingenti somme. Fonti del Foglio raccontano però che spesso i paesi più restii al pagamento – come Stati Uniti e Inghilterra – non si espongono in prima persona ma lasciano che altri soggetti – europei – si occupino della liberazione al posto loro. Perché un ostaggio ucciso, magari con un video feroce in cui si sottolinea che l’occidente non ha fatto nulla per salvare la vita di un suo infedele, è spesso il punto di partenza per crisi di governo, crisi di immagine, crisi di identità: più la guerra al terrore diventa una faccenda lontana e legata ai cosiddetti “ guerrafondai” Bush e Blair, più i governi occidentali non sono in grado di sostenere il rischio di un ostaggio ucciso. Non che la decisione sia facile, s’intende: paesi come l’Italia che hanno avuto il terrorismo in casa sanno bene quanto sia straziante il tormento del pagamento o no di un riscatto. Ma oggi conta anche la percezione della guerra al terrore: essendo più una questione poliziesca – operazioni speciali per cercare di prenderne il più possibile a costi ridotti – che una questione ideologica, la variabile ostaggio diventa discutibile.
Nel 2004 al Qaida aveva pubblicato un “manuale del rapimento” che pare sia utilizzato ancora oggi. Per minimizzare le perdite, solitamente i gruppi terroristici danno in outsourcing i rapimenti a gruppi criminali che lavorano su commissione. I negoziatori – secondo fonti del controterrorismo statunitense – guadagnano circa il 10 per cento del riscatto, creando una forte motivazione ad aumentare la posta. Il quartier generale dei negoziatori sta prevalentemente in Pakistan, e da lì gestisce anche i rapimenti lontani, in Siria, Yemen e nord Africa: nel 2008, un leader del Maghreb ha gestito da solo un ostaggio e poi è stato rimosso in quanto era riuscito a ottenere soltanto “la magra somma” di un milione di dollari perché non aveva seguito le istruzioni dal Pakistan.
Le tattiche sono collaudate: lunghi periodi di silenzio per creare il panico, video in cui gli ostaggi implorano i loro governi di liberarli e minacce di uccisione. Ogni fase del rapimento ha una modalità di copertura dei costi: i video che provano che l’ostaggio è ancora in vita, per esempio, possono essere ottenuti dai servizi segreti (fu il caso dell’italiana Giuliana Sgrena: ci furono molte pressioni per pagare il riscatto e liberarla, anche se sui giornali si continuava a denigrare la possibilità di fare una transazione finanziaria) prima della loro consegna ai network televisivi dietro pagamento di somme che oscillano tra 10 e 20 mila euro. Anche le medicine, un vitto più adeguato e la garanzia che gli ostaggi non saranno maltrattati hanno una tariffa negoziabile.
Il numero di ostaggi uccisi è diminuito nel tempo, soprattutto nel Maghreb – è più profittevole commerciare persone vive – e stando ai dati, il 15 per cento dei rapiti è morto, solitamente durante le operazioni di liberazione, ed è per lo più legato a paesi che tendono a non pagare il riscatto (dicono che un passaporto inglese sia in sostanza un certificato di morte). Secondo fonti del Foglio, la guerra del terrore agli esordi in Afghanistan e Iraq, l’uccisione dell’ostaggio era quasi certa: rafforzava il jihad e terrorizzava l’occidente. Poi però, una volta che alcuni governi hanno iniziato a trattare per la liberazione degli ostaggi – non reggendo alla pressione mediatica – l’opportunità di business è diventata più allettante di uno sgozzamento. Secondo altre fonti del Foglio, il ruolo dell’Italia come mediatore è stato molto importante: Stati Uniti e Gran Bretagna si sono appoggiati alla rete italiana in più occasioni, delegando le operazioni, come dimostrano le quasi trenta lettere di ringraziamento inviate da altrettanti paesi consapevoli del fatto che fossero stati pagati i riscatti attraverso “fondi speciali” finiti sotto la voce aiuti umanitari o condivisione di strutture e operazioni d’intelligence.
Anche la Francia – che secondo il New York Times subisce molti rapimenti perché paga sempre il riscatto, anche se il governo smentisce categoricamente – ha ringraziato l’Italia per la liberazione di Florence Aubenas, George Malbrunot e Christian Chesnot, i giornalisti francesi rapiti in Iraq nel 2004. Secondo alcune fonti, a parte la vicenda del sequestro, nel 2004, di Maurizio Agliana, Umberto Cupertino, Salvatore Stefio e Fabrizio Quattrocchi, e di quella di due uomini dell’allora Sismi liberati nel giro di pochi giorni sempre nel 2004, tutti gli italiani sequestrati in Iraq, Afghanistan, Yemen, Mali sono stati liberati dietro pagamento di riscatti. E’ stato il caso di Simona Pari e Simona Torretta (settembre del 2004) Giuliana Sgrena (febbraio del 2005), Clementina Cantoni (Afghanistan, maggio 2005), Rossella Urru (ottobre 2011) e Mariasandra Mariani (febbraio 2011). La consegna del riscatto avviene, di solito, attraverso un uomo dei servizi segreti, che rischia la vita, soltanto in alcuni casi è l’intermediario a consegnare i borsoni con la somma pattuita.
La pratica è diventata tanto fuori controllo, che nel 2004 gli Stati Uniti promossero un’iniziativa – adottata anche dai servizi alleati, compreso quello italiano – per proteggere militari e civili in aree a rischio: si trattava di un manuale che spiegava che cosa fare per prevenire il rapimento, come comportarsi al momento del sequestro e durante la detenzione, come inviare segnali mentre si era ripresi in video dai jihadisti e via dicendo (molti paesi però, compresa l’Italia, si sono rifiutati di divulgare il manualetto per non “diffondere il panico tra la popolazione”). Oltre al manuale c’era un questionario che veniva sottoposto agli ostaggi liberati: grazie alle informazioni raccolte in quel modo, sono stati arrestati molti terroristi.
Secondo il Wall Street Journal, il Qatar oggi svolge un rilevante ruolo di mediazione: spesso diplomatici qatarioti ricevono pubblicamente ostaggi liberati, mentre funzionari europei e arabi appaiono in televisione per ringraziare l’emirato. Nello scorso marzo, quando il gruppo di al Qaida in Siria, Jabhat al Nusra, liberò 13 suore e altre donne dopo un accordo negoziato da Qatar e Libano, Doha pagò 16 milioni di dollari di riscatto, secondo una fonte libanese sentita dal quotidiano americano.
Nell’ultima parte del suo articolo sul New York Times, Callimachi parla dell’italiana Mariasandra Mariani, rapita nel sud dell’Algeria nel 2011 e liberata dopo 14 mesi di detenzione: lei diceva ai suoi rapitori che la sua famiglia era modesta, coltivava ulivi sulle colline vicino a Firenze, e il suo governo si rifiutava di pagare riscatti. Il rapitore la rassicurò: “I vostri governi dicono sempre che non pagano. Quando torni, voglio che tu dica agli italiani che il tuo governo paga. Pagano sempre”.
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