In Asia l'occidente scopre che il suo modello di libertà sta perdendo fascino
Nel 2007, il giornalista e sinologo James Mann ebbe un’idea profetica. E se la Cina continuasse a crescere e a integrarsi nel sistema economico mondiale, e i suoi cittadini ad avere sempre più autonomia su cosa fare con i loro soldi, ma questo non provocasse nessun cambiamento nel sistema politico?
Che il modello cinese fosse destinato all’implosione, che nella Cina del boom economico e delle nuove ricchezze repressione e libero mercato non avrebbero potuto convivere, era certo fino a pochi anni fa. L’idea era che l’apertura ai commerci, l’integrazione con il mondo, la nascita di una classe media urbana avrebbero naturalmente condotto la Cina verso la democrazia. “La libertà economica genera comportamenti di libertà. E comportamenti di libertà generano il desiderio della democrazia”, disse George W. Bush in un discorso nel 1999, durante la sua prima campagna presidenziale. “Commerciamo liberamente con la Cina, il tempo è dalla nostra parte”.
In Cina c’è una “tendenza inarrestabile” verso la democrazia, disse Tony Blair nel 2005, esprimendo uno dei pilastri più importanti della democrazia liberale, quello per cui crescita economica e libertà politica sono sempre l’una la conseguenza dell’altra, per cui se i confini sono aperti, le merci circolano e le persone hanno la libertà di comprare ciò che vogliono, investire e fare impresa come vogliono, allora anche la democrazia arriverà come per contagio. E’ il teorema di Starbucks, pronunciato dal columnist del New York Times Nicholas Kristof in un vecchio editoriale: ormai i cinesi hanno libero accesso a McDonald’s, a Starbucks e al tenore di vita dei cittadini occidentali, e “nessuna classe media è contenta con più scelte nei gusti del caffè che candidati sulla scheda elettorale”.
Nel 2007, il giornalista e sinologo James Mann ebbe un’idea profetica. E se le cose non stessero così? E se la Cina continuasse a crescere e a integrarsi nel sistema economico mondiale, e i suoi cittadini ad avere sempre più autonomia su cosa fare con i loro soldi, ma questo non provocasse nessun cambiamento nel sistema politico? Se una Cina dove la libertà economica è diffusa continuasse a mantenere il suo regime antidemocratico, a reprimere i dissidenti e a negare la libertà di parola senza nessuna ripercussione? Al tempo (non sono nemmeno dieci anni fa), tra gli esperti circolavano due idee sul futuro della Cina. La prima teoria, che nel suo libro “The China Fantasy” Mann definisce “scenario tranquillo” è quella dell’avanzata congiunta e inevitabile di crescita economica e democrazia liberale. La seconda, lo “scenario del terremoto”, sosteneva che le contraddizioni interne al sistema cinese avrebbero condotto il paese al caos, alla disintegrazione e al collasso. Nessuno prendeva in considerazione il terzo scenario, quello in cui crescita economica e assenza di democrazia avrebbero creato un modello nuovo.
Oggi, dopo una crisi economica che ha indebolito le potenze democratiche, il modello cinese di autoritarismo e crescita ha trovato la sua via alternativa al liberalismo e al mercato. Non è solo l’accordo non scritto con cui, dopo il massacro di piazza Tiananmen, il Partito comunista offrì al suo popolo la promessa di crescita e opportunità in cambio della libertà, estrasse la politica dalle loro vite e mise al suo posto un sistema di controllo e repressione feroce. La generazione cresciuta dopo Tiananmen, dicono molti osservatori, è poco sensibile alle promesse di democrazia dell’occidente. Ha viaggiato in Europa, frequentato le università americane, ha studiato la filosofia occidentale ma anche in privato, lontano dalle orecchie del Partito, professa fedeltà al sistema cinese e diffida della democrazia inefficiente e declinante degli occidentali. Il Partito è corrotto, ma sta garantendo alla Cina la sua età dell’oro: piena di squilibri, sì, ma guardate come state voi europei.
Modelli simili si trovano anche in altre regioni dell’Asia. A Singapore vige un regime semiautoritario dove le tecniche più avanzate di sorveglianza e analisi dei dati – lo scrive questa settimana Foreign Policy – stanno consentendo al governo centrale non solo di reprimere il dissenso ma anche di plasmare una “società più armoniosa”. Eppure l’isola non vive un incubo orwelliano, è uno dei luoghi meno corrotti al mondo, l’economia è fiorente. Anche in India, che invece è una democrazia robusta, il nuovo premier Narendra Modi sta sperimentando modelli in cui il libero mercato e l’apertura agli investimenti si uniscono a politiche nazionaliste e muscolari.
George W. Bush, che della democrazia liberale è sempre stato un difensore appassionato, disse a proposito della Cina che “una volta che la porta verso la libertà è aperta anche di un pertugio, non può più essere chiusa”. In Asia e nel mondo si stanno diffondendo nuovi modelli che lasciano l’occidente sgomento, e che la porta l’hanno aperta, e richiusa.
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