Le toppe di Obama sono peggio dei buchi
Ci sono decisioni frettolose e miopi all’origine del ritiro americano.
Con una certa regolarità ci siamo ritrovati a deprecare l’inazione di Barack Obama, il suo atteggiamento ritirista in politica estera, l’istinto isolazionista che gli suggerisce di fare del disimpegno la sua bandiera politica o di guidare dal sedile posteriore, espressione che non s’attaglia al leader del mondo libero circondato da mondi che liberi lo sono sempre meno. Lo storico classico Victor Davis Hanson ci rammenta però che la lettura della politica estera di Obama come disimpegno e assenza è riduttiva.
C’è un elemento attivo che ne peggiora la portata, aggravando il dolo. Obama, dice, Hanson, non si è rifiutato di risolvere i problemi che si presentavano negli scenari più delicati, ma li ha risolti cucendo toppe anche peggiori dei buchi. Lo zoom sul presente, sulla dimensione dell’immediato e dell’elettoralmente spendibile, ha fatto completamente perdere di vista l’orizzonte di lungo periodo. Con la Russia ha azzerato lo schema punitivo, nemmeno troppo stringente per la vertià, messo in piedi da Bush dopo l’invasione della Georgia nel 2008. Lo ha fatto nel nome del “reset” delle relazioni, sperando di suscitare un nuovo ordine mondiale fondato sull’armonia fra potenze rivali. Era la soluzione meno impegnativa e più popolare, ma anche un salvacondotto per l’atteggiamento aggressivo di Putin. Ora l’America deve approvare sanzioni per fronteggiare le conseguenze del frettoloso reset.
Obama ha cercato una scorciatoia per tendere la mano alla Turchia assumendo una posizione critica verso la politica di Israele, ha allentato la pressione sull’Iran in vari modi, innanzitutto evitando di sostenere la piazza in rivolta nel 2009, in Egitto ha voltato le spalle all’alleato Mubarak salvo poi affidarsi al governo dei Fratelli musulmani e accettando controvoglia la giunta militare di al Sisi. Ogni scelta è stata dettata dalla convenienza del momento, e nel tempo ha restituito disastri strategici e una generale perdita d’influenza. In Siria Obama ha evitato accuratamente di mettere le mani, permettendo una guerra civile che finora ha fatto 170 mila morti e alla quale fa da terribile contrappunto la proclamazione del Califfato a cavallo fra Iraq e Siria.
Non fare nulla era l’atteggiamento più conveniente, si è detto Obama senza contemplare le conseguenze. L’operazione militare in Libia potrebbe sembrare un’eccezione alla regola, ma non lo è. In quel caso la soluzione più semplice e popolare al conflitto interno era la rimozione di Gheddafi manu militari, e così è stato fatto. Oggi la Libia ha tutte le caratteristiche di un “failed state”. La critica all’atteggiamento di Obama non è riducibile al dipolo azione/inazione. “Non tutti i problemi hanno una soluzione militare”, dice il presidente, a ragione, ma se tutti i problemi frettolosamente accantonati oggi conducono a esiti disastrosi domani questo è un grosso problema.
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