Perdersi la Libia
A Bengasi nasce l’Emirato islamico, a Tripoli si combatte e i miliziani premono sul confine con l’Egitto. Haftar smentisce le voci di una fuga, ma il paese scivola verso un caos a cui l’occidente non sa dare risposte.
Bengasi, nell’est della Libia, è in mano alle milizie islamiste. Il quotidiano al Hayat dice che l’ex generale Khalifa Haftar, il rinnegato dei tempi di Gheddafi che aveva dichiarato una guerra personale alle milizie, appoggiato dall’Egitto e un po’ anche dall’occidente, sia fuggito al Cairo. Un rappresentante di Ansar al Sharia, il gruppo terroristico responsabile dell’attacco all’ambasciata americana del 2012, dice che a Bengasi è stato proclamato un “Emirato islamico”, circostanza smentita dalle forze governative, che parlano di un “ritiro tattico” da alcune zone della città. A Tripoli, la capitale, la battaglia tra milizie islamiste che era iniziata per la conquista dell’aeroporto si è estesa a tutta la città. I pozzi di petrolio sono quasi fermi, i tecnici fuggono, le cancellerie occidentali stanno evacuando dal paese cittadini e personale diplomatico; l’ambasciata italiana, che ancora ieri era aperta e funzionante, è una delle poche eccezioni.
Il generale Haftar ha negato la fuga. E’ in Libia e combatte gli islamisti, ha detto il suo portavoce all’agenzia turca Anadolu, ma altre fonti lo vogliono in Egitto a programmare una riscossa che rischia di non avvenire. Ieri, ha scritto l’inviato di Associated Press, in città le strade erano vuote, alcuni edifici ancora fumanti dopo i combattimenti, ma nel pomeriggio alcune centinaia di persone si sono radunate per protestare contro le violenze. L’istituzione di un “Emirato islamico” è una mossa speculare e teologicamente diversa dal Califfato proclamato un mese fa dal rivale Abu Bakr al Baghdadi in Siria e Iraq, ma segno notevole di cosa sta succedendo il Libia. “La pretesa che Bengasi sia sotto il controllo delle milizie è una bugia”, ha detto Haftar alla rete tv al Arabiya, ma intanto su Facebook Ansar al Sharia ha pubblicato decine di foto di armi, munizioni e mezzi corazzati di cui si è impossessata dopo aver conquistato la base militare delle Forze speciali, che controllavano Bengasi per conto di Haftar.
I miliziani premono anche sul confine con l’Egitto, la settimana scorsa sono stati uccisi 22 soldati del Cairo in uno scontro con islamisti armati, e il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, sente la pressione della Fratellanza musulmana – l’organizzazione dell’ex presidente Mohammed Morsi che al Sisi ha represso nel sangue l’estate scorsa e che in parte si è rifugiata in Libia – crescere tanto a oriente quanto a occidente, dove Hamas, costola palestinese della Fratellanza, ha ripreso gli scontri con Israele. Secondo alcuni, l’esplosione della violenza su entrambi i fronti ha una matrice comune. Giovedì a Tripoli migliaia di persone hanno manifestato contro la guerra tra milizie che si sta estendendo in città. I razzi e gli spari tra il gruppo islamista di Misurata e le milizie Zintan, alleate di Haftar, sono arrivati fino alle zone residenziali, e i morti sono oltre duecento. Scontri si registrano anche all’estremo occidente del paese: ieri la Tunisia ha chiuso i quasi 500 chilometri di confine con la Libia, nei check-point ci sono state proteste dei cittadini egiziani che tentavano di fuggire ma sono stati bloccati dalla polizia di frontiera tunisina.
L’ex generale Haftar è solo l’ultimo esempio degli interlocutori privi di sufficiente consenso locale a cui l’occidente ha consegnato le speranze di riportare ordine in Libia. Dopo l’“intervento umanitario” del 2011, con i bombardamenti degli eserciti francese e inglese, sostenuti dagli americani, che hanno imposto il regime change fino alla morte dell’ex rais Gheddafi, l’occidente non è più stato in grado di trovare un piano per gestire il caos lasciato dalla guerra. L’attacco all’ambasciata americana nel 2012 e l’uccisione dell’ambasciatore Chris Stevens da parte delle milizie hanno paralizzato l’iniziativa dell’America (Barack Obama ancora oggi paga le conseguenze in patria); l’Europa, benché la Libia costituisca un interesse vitale per i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, non ha mostrato né coesione né capacità d’intervento. La Libia, con un Parlamento appena eletto e già contestato, un premier senza poteri e il business del petrolio ai minimi storici è uno stato quasi fallito. Nel 2011 l’occidente aveva due priorità: disarmare le milizie che avevano combattuto Gheddafi e favorire la nascita di un governo forte a Tripoli. Ha fallito entrambi gli obiettivi, e ora la transizione libica è a un passo dalla guerra civile.
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