Il premier Matteo Renzi (Foto Lapresse)

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Renzi, il Cav. e il piano dei mille giorni prima del voto (referendum)

Redazione

Il premier vuole fare della consultazione sulle riforme la sua elezione di midterm. Berlusconi si gode la sua indispensabilità.

Roma. Matteo Renzi incassa la prima delle quattro votazioni previste per la riforma del Senato: 183 voti a favore, nessun contrario e quattro astenuti. Gal, Lega, Sel e M5s non hanno partecipato al voto. Dice Paolo Romani, capogruppo di Forza Italia in Senato: “Questa riforma porta in calce due firme, quella di Renzi e quella di Berlusconi”. E insomma nel giorno in cui il Cavaliere scrive ai suoi senatori per spiegare che Forza Italia “in politica economica è alternativa al Pd”, il voto sul Senato conferma il vasto perimetro dell’alleanza asimmetrica tra lui e Renzi, entrambi soddisfatti e per ragioni non sempre coincidenti. Il presidente del Consiglio allontana per un po’ gli allarmi crisaioli della lobby finanziario-editoriale italiana e, conquistato il voto sulla riforma che abolisce il bicameralismo perfetto, può rivolgersi all’elettorato con queste parole: “E’ appena l’inizio. L’Italia comincia a muoversi”.

 

Renzi lavora a quello che a Palazzo Chigi chiamano “il programma dei mille giorni”, un piano articolato d’interventi e riforme che il premier intende presentare a settembre. “La riforma del Senato è quindi solo l’antipasto”, continua a ripetere Renzi convinto che si tratti solo della “prima tappa di un percorso che prevede la rivoluzione nella Pubblica amministrazione, il Jobs Act e la riforma della giustizia”. Esattamente ciò che chiede da tempo Bruxelles e che la nuova Commissione europea tornerà presto a invocare. Nei piani del governo, e del presidente del Consiglio, la riforma del Senato è dunque uno snodo decisivo anche sotto il profilo del marketing elettorale. Renzi lo ha già dichiarato: la riforma sarà sottoposta a referendum. E per lui, questo referendum, si trasformerà in una sorta di elezioni di midterm, una nuova unzione nel consenso, un voto che permetterà a Renzi di superare i trabocchetti della sinistra interna al Pd e gli strepiti di Beppe Grillo. Un voto, peraltro, sul cui esito il premier non ha dubbi perché, come gli ha spiegato, tra gli altri, anche il sondaggista Nando Pagnoncelli, “l’ottanta per cento degli italiani è favorevole alla riforma”.

 

Dunque sorride Renzi, sorride la ministra delle Riforme Maria Elena Boschi. Ma sorride anche il Cavaliere. Berlusconi si gode la riconquistata centralità sul tavolo della politica nazionale, si spinge persino a pronosticare un suo personale recupero “dell’agibilità politica ed elettorale”, lascia insomma intendere che potrebbe anche ricandidarsi dopo l’assoluzione dell’Alta corte di Strasburgo di cui dice di essere “certo”. Ma non solo. Berlusconi gioisce per il successo di Renzi, “che è un mio successo”, ma si frega anche le mani per i guai di Renzi, per gli attacchi che il premier subisce da parte dell’establishment nazionale (Corriere della Sera, Sole 24 Ore, Confindustria, Confcommercio) e internazionale, cioè per il sopracciglio sollevato del Financial Times e per le prescrizioni allarmate del presidente della Bce Mario Draghi. Più s’incrina infatti il coro favorevole alla scalata di Renzi, più Berlusconi sa di diventare indispensabile, e in prospettiva persino libero dall’alleanza che Denis Verdini gli ha costruito con il presidente del Consiglio e leader del Pd. Nel partito del Cavaliere adesso in molti usano un linguaggio che rimanda a una grammatica di concordia e pacificazione nazionale inedita nel marasma ventennale italiano. Dice Altero Matteoli: “Dopo la Costituente, oggi è la prima volta che i maggiori partiti di governo e opposizione condividono e votano insieme una riforma costituzionale”.

 

“Siamo solo all’inizio”

 

Renzi fa dunque le riforme, ma con un occhio sempre puntato sugli umori e le inclinazioni degli elettori. “Il paese ha bisogno di fare riforme in fretta”, dice il premier, che sembra voler collegare, sotto il profilo della comunicazione, il successo delle riforme istituzionali alla ripresa economica che, dice, “deriva anche dell’efficienza e dalla rapidità con la quale il sistema istituzionale riesce a prendere delle decisioni”. Al termine delle quattro letture il Senato sarà ridotto a cento componenti e non avrà più la funzione di votare la fiducia. “E’ appena l’inizio”, dice Renzi. Il ministro Andrea Orlando lavora alla riforma della giustizia. Il Jobs Act arriva a settembre. Poi, il referendum costituzionale. Un voto di midterm. L’antipasto delle politiche.