Foto Lapresse

La voce del cuore su lavoro e pensioni

Redazione

Chi rifugge “bandierine” e “scelte divisive” tifa per le controriforme

Non è il momento di “scelte decisive”, nemmeno quello di “piantare bandierine”, rispondono in coro il politico e l’intellettuale collettivo a chiunque, magari approfittando della penuria di notizie estive, pensi di inserire nell’agenda di politica economica l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (che, nonostante la riforma del 2012, può ancora comportare la reintegra in azienda della persona licenziata per motivi economici). Perfino un premier di rottura come Matteo Renzi, che annuncia la riscrittura dello Statuto, allo stesso tempo si è sentito in dovere di giudicare “inutile” la discussione “adesso”. Perché su temi come il lavoro e le pensioni, nel nostro dibattito pubblico, la “voce del cuore” è sempre la più stentorea. Lo diceva già il liberista eretico Ernesto Rossi all’esimio Piero Calamandrei che nel Dopoguerra brandiva la Costituzione contro la facoltà di licenziare: “Anche Calamandrei è un datore di lavoro, almeno nei confronti della donna di servizio. (…) Ma dubito assai che Calamandrei sarebbe ancora disposto ad assumere al suo servizio una donna, se sapesse di non poterla più licenziare, una volta che fosse entrata in casa sua”. Ragionamento basico che ha però il merito di far capire quanti effetti assurdi e nefasti comporti, specie se moltiplicato su larga scala, il solo fatto di non consentire al mercato di funzionare. Un sessantennio dopo, con l’Italia in stagnazione permanente, la maggioranza della classe dirigente ancora si gingilla con la “voce del cuore”. Solo che questa voce, in maniera sempre più evidente, offre ora copertura a un’agenda controriformista.

 

Si prenda la riforma del lavoro. In Italia da anni imprenditori e lavoratori tentano per quanto possibile di aggirare lo Statuto degli anni 70. Risultato: oggi, tra i dipendenti, l’articolo 18 riguarda 10 milioni di lavoratori e ne lascia fuori altri 7, quelli delle aziende fino a 15 dipendenti e con contratti a termine. Chi oggi difende a tutti i costi i primi chiudendo gli occhi sui secondi, oltre ad andare contro le leggi del mercato e del buon senso, protegge un sistema di apartheid, ingiusto e disfunzionale, che divide il mercato del lavoro tra ultra-garantiti e precari. Questo tipo d’opposizione impedisce di ragionare su meccanismi di welfare universalistico e incentiva altre penalizzazioni degli outsider (l’abolizione dell’articolo 18 per i soli neoassunti).

 

Idem sulle pensioni. Ieri il giuslavorista Pietro Ichino, sul Corriere della Sera, scriveva che “a quasi tre anni dalla riforma delle pensioni del 2011, tra coloro che si qualificano come ‘esodati’ non ce n’è più uno che possa essere indicato come tale secondo il significato originario del termine”. Con ulteriori provvedimenti di “salvaguardia”, e sul Foglio lo scrivemmo da subito, si punta semplicemente a cancellare surrettiziamente l’unica riforma strutturale di questi anni, quella dell’età pensionabile decisa da Elsa Fornero. La “voce del cuore” dell’intellettuale collettivo infatti bluffa, ci racconta che ogni ultra 50enne che perde il lavoro è un “esodato”. E così promuove, ai danni del contribuente ignoto, l’ennesimo passo di gambero sulle riforme. A fronte di tutto ciò, è mille volte meglio chi, apertamente, voglia piantare “bandierine”.