Barack Obama (foto Ap)

Truppe umanitarie in Iraq

Redazione

Obama pensa all’invio di soldati, ma guai a parlare di guerra. Il presidente americano assicura da giorni che i “boots on the ground” in Iraq non ci saranno, che l’America non si impantanerà di nuovo in medio oriente.

Il presidente americano, Barack Obama, assicura da giorni che i “boots on the ground” in Iraq non ci saranno, che l’America non si impantanerà di nuovo in medio oriente. Non impantanarsi, anche a costo di abbandonare i ribelli siriani e lasciare che molteplici linee rosse siano attraversate senza conseguenze, il principio che guida l’Amministrazione dal 2008. Martedì però Obama ha inviato una missione di 130 consiglieri militari nel nord dell’Iraq, per assistere alla creazione di un corridoio umanitario sul monte Sinjar dove migliaia di membri della minoranza religiosa degli yazidi sono assediati dai miliziani dello Stato islamico.

 

E ieri Ben Rhodes, il viceconsigliere per la Sicurezza nazionale, ha detto ai giornalisti che la Casa Bianca sta attendendo il rapporto dei 130 consiglieri per valutare la possibilità di usare le sue truppe di terra per una missione di recupero. “Escludiamo di reintrodurre le forze militari americane nel combattimento sul campo in Iraq”, ha detto Rhodes. Questo anche se gli eventuali soldati inviati dovessero intraprendere combattimenti con lo Stato islamico: una missione di recupero umanitario è altra cosa dai “boots on the ground”. Ma intanto i 130 esperti militari inviati ieri si vanno ad aggiungere agli oltre 700 tra consiglieri militari e membri delle forze di sicurezza che l’Amministrazione ha inviato da giugno per aiutare il governo iracheno e proteggere il personale americano a Baghdad, e gli ultimi annunci potrebbero essere il preludio di qualcosa di più ampio.

 

Per Barack Obama arrivano notizie migliori dalla Zona verde di Baghdad, dove il premier uscente Nouri al Maliki sembra aver rinunciato alla sua scommessa per mantenere il potere. Lunedì, dopo che il presidente iracheno Fuad Masum aveva nominato per la carica di premier il suo compagno di partito Haider al Abadi, Maliki aveva mobilitato le forze speciali in città e dato segno di voler organizzare un colpo di stato, ma ieri ha esortato l’esercito a non entrare nella battaglia politica, e ora a Baghdad già si parla di come organizzare il suo ritiro. L’Amministrazione Obama sostiene da tempo un regime change in Iraq, dove le politiche autoritarie e settarie di Maliki hanno inasprito i contrasti nel paese, ma a completare il suo isolamento e a convincerlo al ritiro sembra stata più che altro l’Iran degli ayatollah.

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