Il premier inglese David Cameron (Foto Ap)

Un decisionista a Downing Street

Redazione

“TINA is back”, ha scritto una volta la Bbc, commentando le scelte di politica economica del governo conservatore di David Cameron che ha vinto le elezioni nel Regno Unito nel 2010.

Roma. “There is no alternative, Tina, is back”, ha scritto una volta la Bbc, commentando le scelte di politica economica del governo conservatore di David Cameron che ha vinto le elezioni nel Regno Unito nel 2010 e che ora sovrintende alla ripresa economica più vigorosa che si veda in occidente. Il pil inglese, per il Fmi, quest’anno aumenterà del 3,2 per cento, dopo un più 1,7 di tutto rispetto nel 2013. “Se ci fosse stata un’altra strada, l’avrei presa – disse l’anno scorso il premier conservatore – Ma non c’è alternativa”. Parafrasando “Tina”, l’acronimo di thatcheriana memoria, Cameron rispondeva così a chi in quei giorni gli chiedeva di deflettere da una politica anti crisi fatta di tagli alla spesa e privatizzazioni. Perché nella sua verve polemica il premio Nobel Paul Krugman avrà pure qualche ragione, forse Londra ha praticato meno austerity di quanta ne abbia rivendicata in pubblico, e l’anno scorso il rapporto deficit/pil era ancora al 5,8 per cento, ma certo a Cameron non si può imputare di aver tergiversato. Il deficit inglese è stato dimezzato dall’11 per cento record del 2009/2010, ed entro quest’anno dovrebbe arrivare al 4,8, un altro punto in meno dal 2013. L’austerity da manuale non esiste, ma è certo che entro il 2018 Londra avrà ridotto la spesa pubblica per beni e servizi ai livelli più bassi rispetto al pil dal 1948, certo è che riducendo le uscite statali sia riuscita a finanziare riduzioni di tasse permanenti (persino, udite udite, sui più ricchi).

 

Al punto che la direttrice del Fmi, Christine Lagarde, proprio rivolgendosi a Cameron, ha fatto il suo unico mea culpa pubblico che si ricordi: qui a Washington ci eravamo sbagliati sul Regno Unito, ha detto, avevamo chiesto di cambiare corso alla politica fiscale e invece aveva ragione il governo di Londra. Aveva ragione Cameron a ridurre pure i salari dei travet a fronte di un aumento della spesa per infrastrutture, a privatizzare le Poste di Sua Maestà (senza scriverlo per due volte nel Def), ad attirare senza tentennamenti gli investitori stranieri, a dichiarare apertamente il gioco di sponda con la Bank of England che nel frattempo si è mossa creativamente nella terra incognita delle manovre straordinarie per puntellare l’economia. Aveva ragione, Cameron, perché i cittadini – consumatori e imprenditori – oggi lo ripagano con una fiducia diffusa in un piano annunciato e poi messo in atto (anche a costo di lanciare un’offensiva culturale, vedi Big Society, per attutirne gli effetti sociali meno gradevoli). E un piano Cameron se l’è tenuto stretto pure per gestire i rapporti con l’Ue: nel 2012 rifiutando la firma in calce al Fiscal compact merkeliano, troppo invasivo; oggi promettendo all’elettorato inglese un referendum popolare per giudicare se convenga rimanere o no nell’Ue. Ricerca del consenso e decisioni, progetti e riforme, there is no alternative.

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