Perché il “nuovo” pil ci ricorderà la pigrizia delle nostre imprese
Con il nuovo metodo di calcolo, il reddito nazionale di tutti gli stati membri della Ue aumenterà, ma ciò non avrà conseguenze significative nei giudizi sulle performance economiche.
La polemica delle associazioni dei consumatori sulla supposta “immoralità” del nuovo sistema europeo di misurazione del pil, che includerà anche attività illegali come il commercio di droga e la prostituzione (ma solo gli scambi volontari, non quelli coercitivi come il pizzo), così come il senso di giubilo di qualche politico che vede all’orizzonte un’inattesa e gratuita spinta fuori dalla stagnazione, rischiano di oscurare alcuni tra gli elementi più importanti della vicenda. Con il nuovo metodo, il reddito nazionale di tutti gli stati membri della Ue aumenterà, ma ciò non avrà conseguenze significative nei giudizi sulle performance economiche e finanziarie dell’Italia. In primo luogo, saranno ricalcolati anche i valori degli anni precedenti, per evitare salti fittizi nei tassi di crescita. Secondo, per il fatidico parametro deficit/pil, il nuovo calcolo produrrà un miglioramento inferiore allo 0,1 per cento, insufficiente a compensare le coperture che il governo cerca per tenere il deficit annuale sotto il 3 per cento e provvedere al finanziamento a regime degli 80 euro, la cassa integrazione, le missioni all’estero e le altre spese irrinunciabili.
Solo pochi hanno sottolineato – e tra questi va menzionato l’ex presidente dell’Istat ed ex ministro Enrico Giovannini, in un’intervista al Corriere della Sera di ieri – che la novità più importante del nuovo modello di calcolo del pil è il trattamento riservato alle spese di ricerca e sviluppo, soprattutto quelle private. Fino a oggi considerate semplici costi aziendali, verranno ora contabilizzate come investimenti ed entreranno a pieno titolo nel prodotto interno lordo (il quale, lo sanno gli studenti del primo anno di economia, è dato dalla somma dei consumi, degli investimenti, della spesa pubblica e delle esportazioni nette). Proprio l’inserimento delle spese per R&S è una delle ragioni per cui – tirate le somme – il ricalcolo del pil produrrà per l’Italia un aumento (stimato tra l’1 e il 2 per cento) inferiore a quello medio europeo (2,4), a quello di Francia e Germania (tra il 2 e il 3) o al balzo di Svezia e Finlandia (tra il 4 e il 5). Poteva andare diversamente, stante la miseria che l’Italia destina a ricerca e sviluppo? Gli ultimi dati ufficiali, relativi al 2012, stimano la spesa italiana (pubblica e privata) per R&S all’1,27 per cento del pil, contro il 2,29 della Francia, il 2,98 della Germania, il 3,41 della Svezia e il 3,55 della Finlandia. Negli anni di crisi successivi al 2007, i due principali paesi continentali costantemente aumentavano la loro quota annuale di R&S, mentre l’Italia sperimentava un andamento da encefalogramma piatto. Nel 2011, dice l’Istat, gli addetti a R&S in unità equivalenti a tempo pieno sono stati in Italia appena 3,8 ogni mille abitanti, al di sotto della media europea (5,1) e con forti disparità territoriali a svantaggio del mezzogiorno. Un’indagine della Banca d’Italia (D’Aurizio e Marinucci, settembre 2013) ha segnalato che per il 40 per cento delle imprese manifatturiere italiane i maggiori ostacoli alle attività di ricerca e sviluppo sono il reperimento di personale specializzato e di fondi: troppo pochi i laureati in discipline tecnico-scientifiche (solo 12,9 ogni 1000 residenti tra i 20 e i 29 anni) e poco efficiente il mercato del credito (“le imprese si basano principalmente sull’autofinanziamento per finanziare la propria attività di R&S, ricorrendo in modo marginale a fonti esterne quali intermediari finanziari, venture capitalist o fondi pubblici. Questi ultimi sembrano avere una modesta capacità di influenzare la decisione di investire in R&S”). A fare ancora più fatica sono le imprese più piccole. Insomma, altro che aiutino a Renzi: il nuovo calcolo del pil rende ancora più eclatante la scarsa lungimiranza (ossimoro) che caratterizza buona parte della nostra imprenditoria, e più urgenti le riforme di modernizzazione dell’economia italiana.
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