Ricerca in stile confindustriale
Il contentino richiesto da Squinzi, la lezione americana e di Murdoch
Strumenti automatici di detrazione fiscale, uguali per tutti, stabili negli anni”. E’ la richiesta di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, lanciata dall’Assemblea degli industriali di Bologna, “per far sì che le imprese producano ricerca”. Insomma dopo la parentesi renziana di Brescia, il presidente di Confindustria ripiega su vecchi riti e vecchie questue: sia lo stato-mamma con mance fiscali, automatiche e indifferenziate, a garantire l’innovazione. Come se Google, Facebook, Microsoft, Apple fossero nate e prosperate con l’ausilio del Tesoro di Washington, e non per l’iniziativa spregiudicata di chi, ventenne nei garage della Silicon Valley, puntava sul mercato e sull’intreccio tra università e finanziatori privati. Come segnala una ricerca dell’istituto Bruegel, è dagli anni Novanta che l’Italia (e la Francia) vede aumentare in modo esponenziale il gap di invenzioni e brevetti non solo con gli Stati Uniti, ma con la Svezia, paese benchmark europeo. Giusto gli anni nei quali esplodevano new economy e globalizzazione, mentre qui si concertava su tutto e i governi elargivano 300 miliardi di sussidi l’anno.
Che Squinzi faccia lobbying, è il suo lavoro. Che chieda di risolvere a carico dei contribuenti il ritardo competitivo dell’Italia – e senza dire una parola sulla denuncia di Sergio Marchionne della concezione proprietaria del posto di lavoro e dello stato onnipresente nell’economia – è la solita ricetta scaduta. Il tycoon Rupert Murdoch, che nel lobbying è un mago, ieri tuittava proprio dalla Silicon Valley: “Che differente prospettiva si trova. Ottimismo, rischio, intelligenza, innovazione a ogni età. Successo, fallimento: nessuna paura”.
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