Merkel approva il Jobs act di Renzi, ma per la fiducia bisogna aspettare
“L’Italia sta facendo un importante passo avanti”, dice la cancelliera a Milano. Ma a Berlino c’è chi frena. Contraddizioni e limiti di
una visione moralista che ora frena pure la crescita tedesca.
Roma. “Con il Jobs act l’Italia sta facendo un importante passo avanti”. La benedizione della cancelliera Angela Merkel al vertice sul lavoro di Milano è arrivata, anche se i grillini in Parlamento sono riusciti ieri pomeriggio a rinviare il voto di fiducia. La benedizione è arrivata, anche se non calorosa come quella attribuita all’altro tedesco presente, Martin Schultz, presidente dell’Europarlamento (“Il governo italiano è fantastico”) o quella del presidente della commissione di Bruxelles, Josè Manuel Barroso: “Complimenti a Renzi, la riforma può rilanciare la competitività dell’Italia”. Merkel, mentre ribadiva poi la necessità di rispettare il Patto di stabilità e crescita sui conti pubblici, ha aperto a qualche modifica almeno su quel che riguarda il conteggio degli investimenti cofinanziati con l’Ue. Ma anche l’endorsement della Cancelliera rischia di risultare di circostanza vista la rimonta in Germania del “partito” dell’ortodossia rigorista che, di fronte alla frenata dell’economia tedesca, sceglie di ribaltare le colpe sugli altri – e sulla Banca centrale europea – anziché farne come nel 2002-2003 l’occasione per rivedere quel che non va nel proprio modello produttivo e sociale. Mentre il partito anti euro Alternative für Deutschland vola nei sondaggi al 10 per cento, scavalcando al terzo posto verdi e liberali, la Cdu è sulle spine. Poi c’è l’insofferenza anti latina di un vecchio negoziatore come il ministro dell’Economia Wolfgang Schäuble, e di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank. Weidmann, prima di succedere nel 2011 ad Axel Weber (oggi presidente della Ubs), era stato direttore di divisione della Cancelleria, una sorta di sottosegretario.
Un profilo tecnico-politico nel quale brillavano i buoni rapporti con la Francia di Nicolas Sarkozy. Ora ripete la contrarietà all’acquisto da parte della Bce di Abs (Asset backed securities), cartolarizzazioni garantite, e ancor più di titoli di stato – le due armi residue di Mario Draghi – e fin qui nulla di nuovo. Ma rispolvera anche gli slogan in auge nel pieno della crisi greca: che a pagare saranno chiamati alla fine “i contribuenti tedeschi”; mentre la Bce (e Draghi) diverrebbero “ostaggi della politica”. Su questo punto proprio il curriculum di Weidmann, ancora oggi assiduo frequentatore di convention della Cdu, dimostrerebbe il contrario.
[**Video_box_2**]Ma è la teoria del contribuente germanico pagatutto che è stata smentita dai fatti. Nella prima fase dell’austerity, il rischio-euro alimentato anche a Berlino ha prodotto la corsa ai Bund considerati bene rifugio. Poi con la politica espansiva della Bce il calo dei tassi ha portato il rendimento dei decennali tedeschi ai minimi storici (ieri allo 0,9 per cento), e al punto più basso tra tutte le grandi economie: né gli Stati Uniti né il Regno Unito, per non dire degli altri governi europei, si finanziano a livelli simili. Che sono da anni negativi in termini reali, cioè confrontati con l’inflazione: in questo momento lo 0,1 rispetto allo 0,9. Questo ha contribuito a far scendere il debito di sei punti in due anni, proprio mentre la Bundesbank appoggiava l’aumento degli stipendi, con punte del 5,6 per i metalmeccanici e del 6,3 per gli statali, nonché l’elevazione del salario minimo a 8,50 euro l’ora che entrerà in vigore però gradualmente nei prossimi anni. Ma in crisi è soprattutto il modello produttivo centrato sull’export: ha prodotto un avanzo positivo della bilancia commerciale – l’eccesso delle esportazioni sulle importazioni di beni e servizi – che sfiora il 7 per cento del pil, ma ha risentito della frenata di Russia, Cina e Brasile, le aree sulle quali l’industria tedesca ha puntato per rimpiazzare strategicamente l’Europa e gli Stati Uniti. I tempi non hanno combaciato perché Francia e Italia, con le loro magagne, continuano a importare dalla Germania per 53 miliardi, cinque volte la Russia e più del doppio della Cina. E quando si sono manifestati simultaneamente il calo dei consumi in Europa e i problemi a Est, la produzione industriale si è ridotta ad agosto del 4 per cento, mentre gli ordini flettevano del 5,7: soprattutto nel settore chiave delle auto. Ritmi da 2009. Che sia l’anticamera della recessione? Visto che il pil del secondo trimestre era già negativo, lo si vedrà tra poco. Intanto gli organismi internazionali tagliano le stime di crescita. Di certo l’assalto latino ai risparmi tedeschi non c’entra nulla. Gerhard Schröder impiegò quella fase di estrema difficoltà per Berlino per riformare dove serviva (non soltanto il lavoro, anche investimenti pubblici e costruzioni private); ora è il momento di un tagliando.
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