Sergio Chiamparino (foto LaPresse)

Ecco, torna il Fus

Redazione

Il Fronte unico degli spendaccioni si rifà vedere a partire dalle regioni. Pochi numeri dalla loro.

Roma. Ieri è stato sufficiente ipotizzare per la prossima settimana “un incontro” a Palazzo Chigi, e i presidenti di regione hanno subito ammorbidito i toni. Ma il Fronte unico degli spendaccioni (Fus) rimane in allerta. Che poi viene da chiedersi se davvero su 445 miliardi di trasferimenti dello stato alle regioni non se ne possano tagliare quattro, come previsto dalla legge di stabilità del governo Renzi? La cifra complessiva dei trasferimenti, l’ultima disponibile a consuntivo, è quella del Documento di economia e finanza del 2013 su dati del 2012, che mette anche a confronto i due anni precedenti. Ebbene, dal 2010 al 2011 l’importo totale girato dallo stato alle regioni è aumentato di 11 miliardi, frutto di una riduzione in conto capitale, cioè per acquisti e investimenti, e di un aumento per quelle correnti, essenzialmente personale. Si tratta del 56 per cento della spesa pubblica italiana, della quale dunque le regioni sono le principali destinatarie. Nel 2013 le regioni ne hanno poi spesi 163 di miliardi, dove la parte del leone la fa notoriamente la sanità. Le province, tanto bistrattate, ne hanno spesi dieci, i comuni invece si sono dati anche loro da fare con altri 66 miliardi. Il resto della spesa statale è composto da pensioni, interessi sul debito, investimenti, contributi europei, poste straordinarie e appunto da quei fatidici 445 miliardi di trasferimenti regionali. I presidenti delle 21 regioni italiane, che si autodefiniscono governatori come negli Stati Uniti, sostengono però che su una spesa stimata dalla Cgia di Mestre in 200 miliardi l’anno, non ne possono ridurre un importo pari al due per cento: nel settore privato un top manager che rifiutasse un simile obiettivo dovrebbe dare le dimissioni. Ma non solo. Poiché ovviamente il territorio delle regioni coincide con quello nazionale, e gli amministrati con i cittadini dello stato italiano, l’idea della classe politica e burocratica regionale è che esista una doppia logica, o una doppia morale: passino i sacrifici e tagli decisi dallo stato e sopportati dalla popolazione; sollevano invece indignazione, minacce e ricatti se lo sforzo viene chiesto alle autonomie locali.

 

A proposito: l’aggiustamento complessivo cumulato dello stato centrale, dal 2008 al 2013, e sopportato da tutti i cittadini, è stato di ben 123 miliardi tra maggiori entrate e minori spese. Le regioni ora sono in rivolta per 4 miliardi in meno all’anno, anche se lo scorso agosto avevano sottoscritto con il governo un “Patto per la salute” che prevedeva aumenti di trasferimenti per la sanità da 109,9 miliardi nel 2014 a 115 miliardi e spiccioli nel 2016.

 

Adesso comunque pare che Sergio Chiamparino, presidente Pd del Piemonte e della Conferenza stato-regioni, stia ammorbidendo i toni, dichiarandosi disposto a sedersi al tavolo con Renzi, per una spending review selettiva. Benissimo: ma perché la selezione non si prendono la briga e la responsabilità politica di farla loro?

 

D’altra parte un altro Pd, il presidente toscano Enrico Rossi, insiste con la solita minaccia della sanità, usata come scudo umano: “O chiudiamo gli ospedali, o tagliamo tutti gli altri servizi, oppure dovremo imporre un super-ticket”. Un altro compagno di partito di Renzi, il laziale Nicola Zingaretti, minaccia anche lui altre addizionali sull’Irpef e sull’Irap, in una regione che le ha già a livelli record e proprio mentre il governo riduce le imposte sulle imprese e sul lavoro. Ma il coro è trasversale, parte dalle regioni leghiste Lombardia e Veneto, dove la sanità effettivamente funziona e rispetta i famosi costi standard, e arriva alla Puglia vendoliana e alla Sicilia dell’ineffabile Rosario Crocetta, la cui giunta continua a erogare 1,2 miliardi l’anno tra emolumenti, pensioni e vitalizi a consiglieri e dirigenti. Mentre, dovendo occuparsi di riconvertire lo stabilimento ex Fiat di Termini Imerese, chiama in soccorso il governo. Cacicchi – per dirla con Massimo D’Alema – abituati alle capriole politiche come ai privilegi borbonici e all’inefficienza amministrativa. Crocetta, già filogrillino, tra l’altro capeggia la classifica dei fondi europei non spesi o da rimborsare a Bruxelles causa irregolarità amministrative. Ma anche un presidente di regione bene amministrata come il toscano Rossi, oltre a minacciare, ritiene – come ha documentato il Foglio – che il suo potere debba spingersi a ridisegnare di sana pianta un paesaggio celebrato in tutto il mondo attraverso il Pit, piano di indirizzo territoriale. Mentre l’Emilia-Romagna blocca motu proprio le trivellazioni nell’Adriatico, e la Puglia rifiuta il permesso al gasdotto Tap.

 

[**Video_box_2**]Dopodiché, certo, scorrendo i dati forniti nel 2013 dalle regioni stesse al ministero dell’Economia, si osserva che la Toscana spende per il personale un decimo della Sicilia – 153 milioni contro 1,7 miliardi – ma anche meno della metà della Campania amministrata dal centrodestra: un dato non rapportabile alla popolazione né tantomeno ai servizi erogati. La stessa Campania spende 101 milioni per “urbanistica”, contro i 6 dell’Emilia-Romagna e i 2 del Veneto. Il record è della Puglia con 128 milioni. Quali sono la logica e la trasparenza? Un altro primato va all’Umbria, quello degli invalidi civili: sono 6,52 ogni cento abitanti, rispetto alla media nazionale di 4,39, al 3,4 della Lombardia, al 2,7 del Trentino-Alto Adige. Il risultato? La spesa delle regioni calcolata dalla Corte dei Conti è aumentata in dieci anni di 89 miliardi, il 74 per cento al netto dell’inflazione. La spesa procapite dello stato è invece rimasta stabile. E pure piangono?