Paola Taverna e Beppe Grillo (foro LaPresse)

Dalla Taverna al wine bar

Redazione

Dice: “Noi ci saremo anche per il Quirinale”. L’ultima volta che lo dissero, anziché sul Colle più alto si ritrovarono cammellati a calci nel didietro nell’agriturismo più oscuro, corso di sopravvivenza nella Giungla Istituzionale con annessa televendita di pentole della Grillo & Casaleggio associati.

Dice: “Noi ci saremo anche per il Quirinale”. L’ultima volta che lo dissero, anziché sul Colle più alto si ritrovarono cammellati a calci nel didietro nell’agriturismo più oscuro, corso di sopravvivenza nella Giungla Istituzionale con annessa televendita di pentole della Grillo & Casaleggio associati. Mai non tratterai, né con nessuno: il sacro verbo del celopurismo. E venne il lungo inverno dell’irrilevanza e dell’insignificanza. E l’inverno, pure se internettiano, sempre fa rima con la fame. Fame atavica. Fame di fama e di rappresentanza, di riconoscimento nei milieu e di ingresso nel circo politico buono, seppure non il massimo. Di essere alfine ammessi al tavolo delle decisioni. Alla stanza di un qualche bottone. Ma quei due, il clown e il guru, sempre lì a bastonare. Espellere, cacciare. Giù dalla china del ridicolo tà-tà-tà il grillino parlamentare – citoyen da nulla, freshman nella capitale molle con spaesato abbiocco à la Vito Crimi – si è progressivamente scisso, Jekyll e Hyde, o Gianni e Pinotto, sulla faglia di due pulsioni equipollenti e distinte. Fatto cento il totale, e 95 i peones che non rilevano, i rimanenti erano guidati o dalla cieca e sofferta obbedienza all’ortodossia – vorrei tanto entrare nell’istituzione, ma tutta intera con il mio abituzzo anticastale, modello Taverna e Di Battista – o dalla lucida insofferenza verso l’ortodossia – à la Di Maio insomma, il wannabe Alfano ministeriabile dei Cinque stelle.

 

Ora, il conflitto nella psiche grillina tra l’inconscio scissionista (dalle istituzioni) e quello entrista (nelle stesse medesime) sembra essersi risolto a favore della pulsione entrista. E’ il momentum Luigi Di Maio, insomma. Il vicepresidente della Camera di espressione Cinque stelle parla come un centrista qualsiasi di “risultato storico” per l’elezione ottenuta alla Consulta, dopo lungo patire, di Silvana Sciarra, e la contestuale nomina al Csm di Alessio Zaccaria grazie al concorso nell’urna dei voti del Pd e del M5s. Col che si prefigurano, per Di Maio, magnifiche sorti e progressive per una collaborazione su “argomenti che interessano la collettività” e che affondi da qui a poco, ovvio, lo sciagurato Patto nazareno. Ma a decrittare bene l’intervista al Corriere di Di Maio, con la sua ansia da linguaggio istituzionale e le pose da politico professionale, a leggere le sempre più insofferenti dichiarazioni di grillini che non ne possono più di stare col naso fuori dalla vetrina della pasticceria, e di poter inaugurare la stagione dell’entrismo nella scelta del Colle, nelle nomine, nella politica fatta di mediazioni e numeri, c’è di più. Nell’ansia di smettere i panni descamisados del vaffanculismo parlamentare (che diranno d’ora in poi, “perdindirindina?”) e di inserirsi finalmente a pieno titolo nella community del ceto politico c’è molto di più di una strategia politica. C’è una pulsione al #cambiamento. Dalla Taverna al wine bar.

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