Juncker e l'Unione europea degli evasori
Il LuxLeaks ci dice che l’uomo alla guida di Bruxelles è responsabile degli accordi per pagare meno tasse tra il Lussemburgo e 340 aziende.
Il Granducato di Lussemburgo, più holding che abitanti [1].
Reddito pro capite in Lussemburgo: 105.918 mila dollari, il più alto del mondo, quasi il triplo di quello italiano [2].
«C’è un buco nero nel cuore dell’Europa, un piccolo Stato grande come la provincia di Bergamo, ma con la metà degli abitanti, 550 mila. È il Lussemburgo, membro fondatore dell’Unione europea, stretto tra Francia, Germania e Belgio. Un Paese ricco, ricchissimo. La sua fortuna sono le tasse. Quelle degli altri. Nel senso che da almeno mezzo secolo è diventato la meta preferita delle aziende alla ricerca di un trattamento fiscale di favore» (l’Espresso) [2].
Dopo solo una settimana da presidente della Commissione europea, il lussemburghese Jean-Claude Juncker è già in bilico, dopo che giovedì scorso è scoppiato lo scandalo del LuxLeaks. Si tratta di un’inchiesta giornalistica che tiene insieme 28 mila pagine di documenti raccolti da un network americano, The International Consortium of Investigative Journalists, e pubblicato in contemporanea da 26 testate (per l’Italia, l’Espresso) [3].
Juncker ha guidato il Lussemburgo dal 1995 al 2013, ma è stato al governo fin dal 1982, quando a 27 anni era ministro del Lavoro. Gli accordi al centro dello scandalo sono stati tutti avallati dal suo governo [4].
L’inchiesta, durata sei mesi, ha messo in luce un’abitudine, probabilmente legale e incredibilmente radicata: circa 550 accordi fiscali a favore di oltre 340 società tra il 2002 e il 2010. Tra queste vi sarebbero Pepsi, Ikea, FedEx, Accenture, e anche 31 società italiane o con attività in Italia. Gli accordi fiscali scoperti sono stati tutti messi a punto dalla società di consulenza PwC [5].
Il sistema funzionava, e ancora funziona, secondo un tacito, reciproco accordo. Le aziende spostano nel Granducato flussi finanziari per centinaia di miliardi di dollari e in cambio hanno la possibilità di un trattamento tributario d’eccezione. A farne le spese sono i Paesi d’origine delle società, costretti a rinunciare al gettito sugli affari dirottati nel paradiso fiscale [2].
Al centro di questo meccanismo gli «accordi fiscali anticipati» (tax ruling), pratica legale che permette di conoscere in anticipo le imposte da pagare e ottenere garanzie giuridiche. Il sistema influenza anche la ripartizione dei profitti e consente, a chi vuole, di minimizzare il gettito. Ad esempio, la britannica Dyson, che produce aspiratori vari, risulta essere riuscita a ridurre gli esborsi sino all’1% dei guadagni [3].
Biondani e Sisti: «I grattacieli di Milano. I palazzi della Regione Sicilia. Le grandi banche italiane. L’industria statale delle armi. C’è un pezzo d’Italia nelle 28 mila pagine di documenti fiscali lussemburghesi scoperti […] Un nome su tutti: il colosso immobiliare Hines, che con i capitali raccolti in Lussemburgo ha ridisegnato, tra grattacieli e nuove strade, quattro quartieri di Milano. Hines è guidata in Italia da Manfredi Catella, a lungo finanziato da Salvatore Ligresti, poi uscito di scena causa dissesto» [6].
«Tra scontri e lanci di lacrimogeni, a Bruxelles giovedì hanno manifestato in 100.000 contro il rigore, i tagli per 11 miliardi del nuovo governo di Charles Michel. Le Soir, il principale quotidiano francofono del Paese, titolava a cinque colonne: “Così il Lussemburgo aggira il fisco belga”. Sta quasi tutto qui il nuovo paradigma esplosivo che potrebbe investire l’eurozona, tra le tensioni sociali anti-rigore che aumentano in tutta l’eurozona e le rivelazioni del LuxLeaks sul quasi azzeramento delle tasse a favore, non certo dei cittadini, ma delle società con sede nel Granducato» (Adriana Cerretelli) [7].
Secondo i dati Ocse, nel 2013 il Lussemburgo ha ricevuto «investimenti diretti esteri» per 2.280 miliardi di dollari, ma soltanto 122 sono andati all’economia reale. Il resto, è chiaro, non erano investimenti ma soldi portati nel Granducato per sottrarli al fisco dei Paesi in cui erano stati prodotti e quindi dove andavano tassati [4].
Per l’ex ministro Vincenzo Visco «il Lussemburgo ha queste pratiche da paradiso fiscale, ma è un membro dell’Unione europea e partecipa alla moneta unica. Qui il problema non è soltanto giuridico, ma diventa politico. Si parla tanto di scambi di informazione sulle persone fisiche tra i vari Stati, ma non si parla di una questione ben più rilevante come questa che riguarda le grandi imprese» [8].
«Oggi il Granducato è sotto assedio. Paesi europei come Francia, Germania, Italia e anche gli Stati Uniti, sembrano decisi a chiudere le falle dell’evasione e dell’elusione fiscale internazionale. D’altra parte le cifre parlano chiaro. Ogni anno dai conti dell’Unione spariscono 1.400 miliardi di euro. Pochi mesi fa la Commissione di Bruxelles si è scagliata contro il meccanismo dei “tax ruling” mettendo sotto inchiesta Amazon e Fiat Finance, accusate di aver spuntato un aiuto di Stato illegale» [2].
«L’Italia può porre il problema a livello europeo in modo formale e pressante. Ma stiamo sempre a rincorrere, basta vedere il caso della Fiat: ha messo la sede legale in Olanda, dove ci sono condizioni giuridiche molto favorevoli come le azioni a voto plurimo, che consentono di controllare una società senza averne la maggioranza. Poi ha messo la sede fiscale a Londra, dove c’è un’aliquota fiscale sulle società molto bassa. Poi la quotano a Wall Street. Quindi sono apolidi» (Vincenzo Visco) [8].
Mario Gerevini: «Raccontano i vecchi frequentatori delle banche e delle fiduciarie lussemburghesi che una volta per strada c’erano le macchinette tritacarte. Tedeschi, francesi, belgi e molti italiani erano clienti abituali degli studi professionali e delle finanziarie del Granducato. Poi la tecnologia si è evoluta e con essa la finanza. Ma il Lussemburgo è sempre rimasto lì in mezzo: crocevia di grandi capitali, non sempre tracciabili né puliti, un paradiso fiscale in giacca e cravatta, ben più sofisticato ed efficiente delle “rozze” Cayman o di Panama o delle Isole Vergini Britanniche. E ben più aderente alle norme internazionali» [1].
[**Video_box_2**]In effetti i regimi societari iper-agevolati in Europa non sono affatto vietati. Adriana Cerretelli: «I tentativi di armonizzare la pressione fiscale su questo fronte sono finora miseramente falliti, nonostante i ricorrenti assalti di Germania e Francia. Risultato: la concorrenza tra i vari sistemi fiscali è prassi lecita e consolidata, che ha tra l’altro l’implicito vantaggio di stimolare il calo della pressione in Europa: oggi supera di circa 10 punti quella degli Stati Uniti, per non parlare degli emergenti» [7].
Prima della sua nomina a presidente della Commissione europea, quando David Cameron aveva annunciato il suo voto contrario definendolo un «uomo del passato», i tabloid britannici avevano descritto Juncker come un pericoloso federalista, che beve cognac a colazione ed è pronto a cacciare il Regno Unito dall’Ue [9].
David Carretta: «Juncker è un democristiano vecchio stile, con una forte attenzione al sociale. Dopo aver contribuito a redigere il trattato di Maastricht, nel 2003, votò per permettere a Parigi e Berlino di violare il Patto di Stabilità. Ricompensato con la presidenza dell’Eurogruppo nel 2004, chiuse gli occhi sui trucchi di bilancio della Grecia, salvo poi acconsentire alle insistenti richieste di austerità che venivano dal Nord Europa per il Sud spendaccione [9].
Ora Juncker si deve dimettere? Stefano Feltri: «Se si guardano i numeri, probabilmente ha fatto più danni alle finanze pubbliche europee Juncker che qualunque evasore fiscale. Eppure era tutto noto: basta leggere la brochure promozionale del Luxembourg Stock Exchange, la Borsa del Granducato, per vedere che questo ricchissimo staterello non ha pudore nel presentarsi come uno snodo fondamentale per le imprese che devono eludere il fisco» [10].
Ma la posizione di Juncker rischia di complicarsi: secondo un documento interno della Commissione europea, quando era ancora premier del Lussemburgo, avrebbe ostacolato l’inchiesta dell’esecutivo comunitario sugli accordi fiscali riservati, partita nel giugno 2013, rifiutando di fornire tutte le informazioni richieste. L’ostruzionismo, giustificato dalla «confidenzialità» dei dati fiscali, ha costretto la Commissione Barroso a inviare una «ingiunzione di informazione», prima di aprire una procedura di infrazione e minacciare un ricorso davanti alla Corte di giustizia per ottenere un po’ di chiarezza sulle pratiche fiscali opache del Lussemburgo [11].
«Quando il Partito Popolare e poi il Consiglio e il Parlamento europeo hanno individuato in Juncker il successore di Barroso alla Commissione, hanno applicato una specie di condono fiscale. O almeno morale. L’Europa accetta al suo interno quello che gli economisti chiamano arbitraggio fiscale o, meglio, beggar thy neighbour (frega il tuo vicino). La prosperità di nazioni sempre pronte a criticare la bassa competitività dei Paesi mediterranei indebitati si fonda quasi esclusivamente sulle furbate fiscali. Lo scandalo LuxLeaks non è una notizia. La sanzione morale che comincia a colpire le aziende che aggirano il fisco in Europa invece è una cosa nuova. Juncker dovrà tenerne conto» (Stefano Feltri) [11].
Note: [1] Mario Gerevini, Corriere della Sera 7/11; [2] Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti, l’Espresso 7/11; [3] Marco Zatterin, La Stampa 7/11; [4] Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 8/11; [5] Beda Romano, Il Sole 24 Ore 7/11; [6] Paolo Biondani e Leo Sisti, la Repubblica 8/11; [7] Adriana Cerretelli, Il Sole 24 Ore 7/11; [8] Francesco Bonazzi, Dagospia 7/11. [9] David Carretta, Il Messaggero 7/11; [10] Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 7/11; [12] David Carretta, Il Messaggero 8/11.
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