Matteo Renzi (foto Ap)

Le vie dell'Europa non sono infinite

Redazione

Essere “radicali”, in Europa, è un’opzione politica più che legittima per il nostro governo. A detta di molti, perfino l’unica utile e ragionevole oramai, giunti alla terza recessione italiana dal 2008. Un’austerity all’inglese, insomma, persistente ma growth-friendly.

Essere “radicali”, in Europa, è un’opzione politica più che legittima per il nostro governo. A detta di molti, perfino l’unica utile e ragionevole oramai, giunti alla terza recessione italiana dal 2008. Solo lasciandosi alle spalle, e di molto, il tetto del 3 per cento al rapporto deficit/pil – ha sostenuto sul Foglio l’imprenditore Carlo De Benedetti – Matteo Renzi potrebbe trovare lo spazio sufficiente a tagliare le tasse e così rilanciare la crescita. Bruxelles se ne farebbe una ragione e i mercati capirebbero. I semidei liberisti Alesina&Giavazzi precisano: i mercati capirebbero la rottamazione dei parametri di Maastricht, a patto che il governo allo stesso tempo s’impegni in tagli di spesa fattibili e certi nel medio termine (5 anni). Un’austerity all’inglese, insomma, persistente ma growth-friendly. Seguendo tali consigli, si sarebbe “radicali” nei fatti e non soltanto a parole; soprattutto, si rianimerebbe la crescita. Ora veniamo ai segnali che arrivano dal governo. Il timore reverenziale verso Bruxelles, a favore di telecamere, a Palazzo Chigi certamente non esiste. Né esiste una voglia matta del presidente del Consiglio (o del più posato ministro Padoan) di apparire come “il più tedesco degli economisti italiani” (cit. da Mario Monti). Tutto ciò è un bene, in una nuova fase di pressioni globali su Berlino per una politica che contempli anche le carenze di domanda globale. Un atteggiamento baldanzoso però non rende automaticamente un governo “radicale”. Nella legge di stabilità, invece di preventivare uno sforamento deciso del deficit, pianificando allo stesso tempo tagli di spesa certi per i prossimi anni, compaiono clausole di salvaguardia di entità mai vista negli scorsi anni, cioè aumenti di tasse dai 12,1 ai 20,5 miliardi (dal 2016 al 2018) che scatteranno in caso non si trovassero risorse in altro modo. Non certo il miglior preannuncio di “radicalità” per noi contribuenti. 

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