Reductio ad razzismo
I critici della sentenza del gran giurì che ha scagionato l’agente Darren Wilson per l’omicidio di Ferguson si dividono in almeno due correnti. L’America di Ferguson ha bisogno di riforme, non di dialettica razziale.
I critici della sentenza del gran giurì che ha scagionato l’agente Darren Wilson per l’omicidio di Ferguson si dividono in almeno due correnti. Una riconduce ogni cosa, dalla dinamica dell’evento all’impostazione delle indagini del procuratore, a motivi di razza. Secondo questa versione, Michael Brown è stato ucciso per la sola colpa di essere nero. L’altra riconosce che un sistema che permetta ai poliziotti di uccidere persone disarmate e, in ottemperanza della legge, non essere incriminati è un sistema che va riformato, ma non fa della questione razziale l’elemento dominante. Nella seconda notte di proteste, cortei e scontri in centinaia di città americane la prima corrente ha dominato la scena con lo slogan “black lives matter”, le vite dei neri contano, che implicitamente suggerisce che Wilson è un suprematista bianco che nega agli afroamericani la dignità di persone.
Questa è anche la versione ufficiale dell’avvocato di Dorian Johnson, il ragazzo che era con Brown il giorno in cui è stato ucciso. Ma è anche la spiegazione che la piazza solidale con Ferguson dà a qualunque fenomeno di disparità razziale nel sistema criminale: se nelle carceri il numero di neri supera di sei volte il numero dei banchi è perché gli agenti, i procuratori, le giurie, i protocolli di comportamento dei poliziotti, i sistemi di interrogatorio, i medici legali e i tecnici di laboratorio hanno un pregiudizio contro i neri. Suggerire che il problema sta in un sistema di giustizia che ha bisogno di una riforma ma che poco o nulla c’entra con il razzismo è quasi inammissibile nel clima infiammato dell’America di Ferguson, ma forse è quella la via della ragionevolezza.
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