La “professoressa omofoba”? Non lo era
Un mese fa, sulla Repubblica, avevamo letto la storia dell’insegnante di religione di Moncalieri, accusata da un alunno aderente all’Arcigay di aver detto in classe che gli “omosessuali devono curarsi”. Allarme, indignazione, interrogazioni urgenti.
Un mese fa, sulla Repubblica, avevamo letto la storia dell’insegnante di religione di Moncalieri, accusata da un alunno aderente all’Arcigay di aver detto in classe che gli “omosessuali devono curarsi”. Allarme, indignazione, interrogazioni urgenti a firma degli onorevoli Lavagno, Zan, Pilozzi, Piazzoni e Marzano, i quali chiedevano se il ministro dell’Istruzione fosse a conoscenza dei fatti e “come intendesse procedere per contrastare casi analoghi di omofobia dei docenti negli istituti statali”. Non solo. A prendere le distanze dal comportamento della professoressa era intervenuto anche l’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia. Ma ora si scopre che non c’era nulla di vero. Dopo l’indagine interna alla scuola, ascoltati gli allievi che l’hanno scagionata da ogni accusa, la conclusione è che “la docente non ha abusato del suo potere, né ha fatto proselitismo, ma ha svolto soltanto la sua funzione educativa”. Nessuna frase omofoba, nessun invito a curarsi: solo l’ennesimo pretesto per millantare persecuzioni e, con l’occasione, sollecitare l’approvazione del “decreto Scalfarotto” (con il quale la prof. sarebbe stata direttamente avviata alla galera).
La docente avrebbe ora diritto alle scuse di chi l’ha precipitata in un mese da incubo, ma non le avrà. Quel riflesso pavloviano che fa vedere omofobia dove non c’è, è lo stesso che aveva fatto attribuire a “vessazioni omofobe” il suicidio del quindicenne romano che amava portare pantaloni rosa. Anche lì, le indagini hanno concluso che non c’erano stati né bullismo né omofobia. Eppure, si sente tuttora usare la storia tristissima del “ragazzo con i pantaloni rosa” per inventare un’emergenza che non c’è.
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