La scomparsa del ragionevole dubbio
Giudicati tre volte per lo stesso reato. La sentenza di condanna di Alberto Stasi, che contraddice due sentenze di assoluzione precedenti, oltre all’ovvio interesse suscitato da una vicenda di cronaca assai controversa, propone un tema più generale che riguarda il criterio che deve guidare chi emette le sentenze.
La sentenza di condanna di Alberto Stasi, che contraddice due sentenze di assoluzione precedenti, oltre all’ovvio interesse suscitato da una vicenda di cronaca assai controversa, propone un tema più generale che riguarda il criterio che deve guidare chi emette le sentenze. La legge, per la precisione la legge Pecorella del 2006, stabilisce che “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”. Già il fatto che una delle norme più antiche e note della giurisprudenza anglosassone sia entrata nell’ordinamento italiano soltanto otto anni fa, allude a una mentalità radicata che non è certo improntata ai criteri del garantismo. Comunque ora la legge c’è, e risulta quindi ovvio domandarsi se una duplice assoluzione decretata da tribunali che avevano esaminato le stesse prove e gli stessi indizi non rappresenti di per sé la fonte di un più che ragionevole dubbio. Nei sistemi anglosassoni, che prendono sul serio il criterio del ragionevole dubbio, infatti, non si può processare due volte per lo stesso reato chi sia stato assolto in un precedente giudizio. In Italia, invece, la procura può sempre appellare le sentenze di assoluzione e questo rappresenta di per sé una sottovalutazione se non proprio una negazione del principio garantista. Altri elementi tipici del sistema di garanzie non sembrano rispettati dalla terza sentenza Stasi: l’onere della prova a carico dell’accusa e il principio “in dubio pro reo”, oltre all’obbligo di motivazione e giustificazione razionale delle decisioni che riporta alla questione del ragionevole dubbio. Questi aggettivi, ragionevole o razionale, non sono ulteriormente precisati nelle norme, anche perché farlo sarebbe impossibile senza aprire un dibattito di tipo filosofico, ma in un paese civile rappresentano di per sé un perentorio invito a usare il buon senso.
[**Video_box_2**]A questa concezione, sancita peraltro dalla legge, si contrappone quella che spesso è stata sostenuta dalla magistratura associata del “libero convincimento” del giudice. Col pretesto di evitare interferenze di altri poteri sull’esercizio dell’azione giudiziaria, si dà al convincimento del magistrato un valore assoluto, libero persino dal condizionamento della legge e del buon senso. Spetterà ora ai livelli ulteriori di giudizio verificare, oltre ad altri profili di legittimità, se la sentenza Stasi rispetta il principio del ragionevole dubbio. Indipendentemente dal caso specifico, però, risulta evidente una difformità grave nell’interpretazione di un principio basilare, il che renderà incerta la sua stessa validità concreta, almeno fino a quando l’accusa conserverà il diritto in sostanza assurdo di appellare le sentenze di assoluzione.
Il Foglio sportivo - in corpore sano