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Dopo la Sony, la nostra idea della Corea del nord è tutta da ripensare

Redazione

Il caso mostra, come scrive Vox, che la Pyongyang è “molto meglio nell’hacking di quello che si pensa”.

Roma. Quando Shane Smith, il cofondatore di Vice, è entrato in un “laboratorio informatico” a Pyongyang, durante una visita organizzata dai funzionari del regime nordcoreano, ha trovato un open space pieno di computer, e un ragazzo ben vestito davanti a ogni schermo. Alcuni leggevano dei documenti, altri navigavano su internet. Ma dopo pochi minuti, Smith si è accorto che nel laboratorio c’era uno strano silenzio. Non si sentiva il clic dei tasti del mouse, né il rumore tipico di quando si scrive alla tastiera. I ragazzi avevano le mani sul mouse, ma non cliccavano. Non sfogliavano le pagine dei documenti, non navigavano su internet. La conclusione di Smith, che dal suo viaggio in Corea del nord ha tratto un documentario trasmesso in America da Hbo nel 2013, è stata che i ragazzi fossero dei figuranti, come ce ne sono in tutti i luoghi asettici e coreografati in cui le guardie del regime accompagnano gli occidentali in visita, dalle scuole alle palestre. Luoghi in cui il governo nordcoreano organizza delle messe in scena per ingannare il mondo sulle molte cose che non possiede: prosperità, dei servizi efficienti, la felicità dei propri cittadini. E internet. Una frazione minuscola dei nordcoreani ha accesso a un computer, e davanti alle accuse del governo americano (ufficializzate ieri dall’Fbi) secondo cui il più terrificante attacco hacker della storia contro un’azienda privata, quello a Sony Pictures, è opera di Pyongyang, molti esperti sono scettici. I nordcoreani non hanno le capacità tecniche e culturali per un attacco così sofisticato, dicono (chiunque abbia fatto l’hacking alla Sony, oltre che un know how notevole e l’aiuto di un probabile insider, ha anche conoscenze estese del mondo di internet e dei suoi funzionamenti). Certo, Pyongyang forse è stata aiutata dai ben più temibili hacker del regime cinese (ieri però Obama ha detto che non ci sono prove di una partecipazione di altri paesi), ma il caso Sony mostra, come scrive Vox, che la Corea del nord è “molto meglio nell’hacking di quello che si pensa”, e questo comporta dei cambiamenti strategici enormi per l’occidente e per la vicina Corea del sud. Molti disertori scappati dal regime nordcoreano hanno spiegato come funziona l’unità di hacking segreta di Pyongyang. I ragazzi più promettenti studiano in scuole speciali, e sono inviati ad addestrarsi in Cina o in Russia. Poi tornano, ed entrano a far parte dell’unità 121, che forse è in parte dislocata in Cina, e che per la sua efficacia negli ultimi anni è passata da 500 a 3.000 effettivi. La Corea del nord sta modificando la sua strategia offensiva, e sempre i disertori spiegano che Pyongyang punta sugli attacchi hacker perché sono “asimmetricamente vantaggiosi” per la militarmente debole Corea: con poco sforzo e rischi limitati creano danni enormi e di grande impatto mediatico. E’ il modo più efficiente “per farsi prendere sul serio”, scrive Politico.

 

Pensare alla Corea del nord come un problema soltanto militare e di diritti umani non è più efficace, e alcune iniziative rischiano più che altro di fare danno. Un gruppo di attivisti sudcoreani ha appena annunciato di voler inviare oltreconfine grazie a palloni a idrogeno copie del film “The Interview”, la satira su Kim Jong-un che avrebbe scatenato l’attacco. Ma saltare sul carro della crisi digitale con una campagna per i diritti umani è sbagliato, scrive Chad O’Carroll di NkNews: chi riceverà quel film rischia la pena di morte, e cosa si ottiene in cambio? Nessun vantaggio pratico, nessuna contromisura efficace e il rischio di nuove ritorsioni. E se il prossimo attacco nordcoreano fosse non contro Sony, ma contro un’infrastruttura strategica?

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