Renzi, eppur si muove
Con una buona dose di provincialismo qualche giornalone definisce modesto l’esito del semestre europeo a guida italiana. Forse intendeva riferirsi al vertice di Bruxelles, cioè al Consiglio dei capi di stato e di governo che ha concluso i sei mesi nei quali Matteo Renzi ha avuto la presidenza del Consiglio stesso.
Con una buona dose di provincialismo qualche giornalone definisce modesto l’esito del semestre europeo a guida italiana. Forse intendeva riferirsi al vertice di Bruxelles, cioè al Consiglio dei capi di stato e di governo che ha concluso i sei mesi nei quali Matteo Renzi ha avuto la presidenza del Consiglio stesso. Pensare però che si sia trattato di un’Europa a guida italiana, con agenda italiana, significa ignorare più o meno deliberatamente i rituali comunitari, dove la presidenza di turno ha un valore onorifico e organizzativo. Da hôtellerie. Dopo di noi da gennaio c’è la Lettonia. Prima ci sono stati Grecia, Lituania, Irlanda, Cipro: chi parlerebbe in patria e fuori di semestri greci, ciprioti, lèttoni? Certo, ad alimentare le aspettative c’erano state nell’ordine la disperazione di Enrico Letta che si aggrappò alla scadenza in questione, la stessa baldanza renziana, una certa retorica quirinalizia, nonché la schizofrenia di chi in Parlamento prima chiede di spezzare le reni alla Merkel e poi si compiace delle eventuali sconfitte. Al netto di tutto questo, quella che va giudicata non è l’agenda dell’Europa di Renzi, ma l’agenda di Renzi in rapporto all’Europa, in questi sei mesi e in quelli a venire. Il premier è sbarcato a Bruxelles forte della sua freschezza e di un clamoroso successo personale: si è trovato alle prese con colleghi impopolari logorati dal tempo e dalle urne, tranne Angela Merkel. Questo patrimonio ha pagato pegno ai bizantinismi delle nomine comunitarie che hanno occupato gran parte del semestre, con l’ineffabile presenza di due commissioni, doppi interlocutori, doppie burocrazie. Eppure l’absolute beginner Renzi ha ottenuto che un’Europa fino a giugno di un marmoreo rigorismo parlasse in chiave congiunturale di flessibilità nella valutazione di deficit e debiti, e di investimenti nelle strategie di medio periodo. Portando dunque a Bruxelles, se non ancora a Berlino, le tesi del Fondo monetario internazionale, dell’Ocse, degli Stati Uniti e del Giappone. Prima di lui l’unico italiano che se ne era davvero occupato si chiamava Mario Draghi: non Letta, con tutto il suo pedigree di Aspen. I risultati si vedranno l’anno prossimo, certo sulla base delle riforme italiane e dell’impatto di queste sulla crescita. Per inciso, la richiesta di calcolare con criteri meno retrò la differenza tra pil numerico e potenziale, detta output gap, richiesta ispirata dal Fmi e dalle economie anglosassoni, è sostenuta per la prima volta dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan.
Nel frattempo il 2014 si conclude con l’approvazione del Jobs Act e l’archiviazione della concertazione: due fatti autenticamente europei. Con la restituzione alle aziende di gran parte dei debiti della Pubblica amministrazione; con i primi tagli alla burocrazia statale e locale; con un primo sgravio fiscale per i dipendenti – il bonus da 80 euro – e un primo taglio di Irap e contributi per le imprese. Nonostante la pressione resti elevata (43,3 per cento), e così la disoccupazione, le riduzioni fiscali sul lavoro sono di 11,8 miliardi a fronte di aumenti per 8,7. Un anno fa, con Letta a Palazzo Chigi, il noto cacciavite si esercitava sugli esodati, sull’aumento dell’Iva e sui nuovi nomi da dare alle tasse sulla casa, mentre Fabrizio Saccomanni si vedeva respinta per due volte da Bruxelles la legge di stabilità. Due anni fa con Monti si contavano gli introiti della maxi-Imu e abortiva la riforma del lavoro targata Fornero. Quanto al pil, il 2013 chiudeva in calo dell’1,9 per cento (e lo 0,1 dell’ultimo trimestre è stato cancellato dall’Istat), dopo il meno 2,4 del 2012. Quest’anno saremo ancora sotto dello 0,5, peggio di quanto previsto da Renzi, un abisso rispetto all’1,1 iscritto in bilancio da Letta e Saccomanni. Incrociando le dita, le caute stime di crescita del governo per il 2015 coincidono con quelle di Confindustria, Ocse, Fmi e Commissione europea. Con una differenza: allora l’Italia declinava mentre l’Europa, se pure per poco, risaliva. Stavolta si può provare a fare come gli altri.
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