Charlie Hebdo, i tre giorni che sconvolsero l'Europa
Cronaca del massacro. I kalashnikov, gli ostaggi, la fuga finita nel sangue e il terrore islamista dentro casa.
Mercoledì 7 gennaio alle 11.30 due uomini incappucciati, vestiti di nero, armati di un kalashnikov e un fucile a pompa, forse con i giubbotti anti-proiettile, escono da una Citroën C3 nera ed entrano al 6 di rue Nicolas-Appert, una piccola strada a traffico limitato nell’XI arrondissement di Parigi, poco a nord di Place des Voges e della Bastille «È qui Charlie Hebdo?», gridano.
Cercano la redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, che però non è lì, ma pochi metri più avanti. Il giornale esiste dagli anni Settanta e nella sua storia ha subìto diverse minacce per la sua satira sull’Islam. Nel 2011 la sede precedente della rivista era stata incendiata e distrutta con una molotov dopo che la redazione aveva annunciato la nomina simbolica di Maometto come direttore di una sua edizione.
Accortisi dell’errore i due uomini incappucciati si spostano al numero 10. Entrati nel palazzo si imbattono in una postina che sta consegnando una raccomandata. «Ero in fondo al corridoio. Ho visto due uomini mascherati e armati, a un certo punto si sono messi a sparare in aria per spaventarci. Volevano sapere dove fosse l’ingresso. Sono riuscita a scappare». Nel palazzo ci sono tre piani e molti uffici.
A questo punto i due prendono di mira uno dei due inservienti all’ingresso, lo costringono a dire loro dove si trova la redazione, ovvero al secondo piano. Poi lo uccidono. Si chiamava Fredéric Boisseau, aveva 42 anni. È la prima vittima.
Dopo l’attentato del 2011, la sede di Charlie Hebdo non è segnalata da alcuna indicazione. Sulla porta solamente la targhetta generica “Les éditions rotatives”.
I terroristi salgono al secondo piano, incrociano la disegnatrice Corinne Rey, la firma «Coco» del giornale, che era andata a portare la figlia all’asilo. Con le armi puntate addosso, Coco digita il codice di accesso per aprire la porta del giornale. Dalla sua testimonianza: «Hanno sparato su Wolinski, su Cabu… È durato cinque minuti… Mi sono rifugiata sotto una scrivania… parlavano un francese perfetto. Hanno rivendicato la loro appartenenza ad Al Qaeda».
In quel momento si sta tenendo la riunione di redazione del settimanale, quella che serve per impostare il numero successivo. La riunione inizia tutti i mercoledì alle 10.30 e termina all’ora di pranzo quando solitamente tutti vanno a mangiare nel bistrot Petites Canailles.
La sala riunioni è all’ingresso, sulla sinistra. Gli attentatori cercano subito Stéphane Charbonnier, per tutti Charb, 47 anni, dal 1992 a Charlie Hebdo, di cui ha assunto la direzione nel 2009. «Dov’è Charb? Dov’è Charb?», ripetono. Quando uno dei due assalitori lo trova dice solo «Charb?», fissandolo negli occhi e, senza attendere la risposta, gli spara. Poi i due terroristi fanno il nome, una alla volta, dei membri della redazione e li finiscono.
Il giornalista d’inchiesta del settimanale Laurent Léger si getta sotto il tavolo e chiama la polizia con il telefonino, mentre esplodono i primi colpi.
Nel giro di pochi minuti muoiono Jean Cabut detto Cabu, 76 anni, vignettista; George Wolinski, 80 anni, vignettista; Bernard Verlhac detto Tignous, 57 anni, vignettista; Philippe Honoré, 73 anni, vignettista; Bernard Maris, 68 anni, economista che aveva una rubrica su Charlie Hebdo con lo pseudonimo di Oncle Bernard; Elsa Cayat, psicanalista e giornalista; Michel Renaud, ex capo di gabinetto del sindaco di Clermont Ferrand; Mustapha Ourrad, correttore di bozze musulmano che tra un mese sarebbe diventato cittadino francese; la guardia del corpo del direttore Franck Brinsolaro, 49 anni.
Sigolène Vinson, comica, avvocatessa e scrittrice che si trovava nella redazione del giornale, racconta che uno dei terroristi le ha puntato una pistola alla tempia e le ha detto: «Non ti uccidiamo perché non uccidiamo le donne, ma tu leggerai il Corano».
Alle 11.45 i due uomini tornano in strada e si dirigono verso la Citroën. Nei video girati con il telefonino dalle finestre e dal tetto, li si sente gridare «Allah Akbar!», «Allah è il più grande», e «Abbiamo ucciso Charlie Hebdo!», «Abbiamo vendicato il profeta Maometto!».
«Allah Akbar!», gridano ancora i terroristi per strada, dopo avere scaricato decine di colpi sul parabrezza di un’auto della polizia accorsa sul posto, con gli agenti all’interno che rimangono indenni. Gli agenti sono costretti a indietreggiare. «Abbiamo ucciso Charlie Hebdo», ripetono, e sembrano sul punto di rientrare in auto quando vedono avvicinarsi un agente di polizia in bicicletta, lungo il boulevard Richard Lenoir. Così i due si allontanano dall’auto e decidono che il lavoro non è ancora finito. Sparano raffiche contro il poliziotto, che cade a terra. Corrono senza agitarsi verso di lui. Il ferito sembra immobile, poi si volta leggermente e alza un braccio, un gesto che sembra un’implorazione. In quel momento, viene finito con un colpo alla testa.
Il poliziotto freddato a terra si chiama Ahmed Merabet, ha 42 anni, ed è musulmano. Lavorava al commissariato centrale dell’XI arrondissement.
A questo punto i due tornano a bordo dell’auto e si dirigono verso nord-est. Uno dei due però prima raccoglie una scarpa di tela nera caduta dall’auto.
Il bilancio della strage è di 12 morti e 11 feriti, dei quali quattro gravi.
Alle 12.15, entrando a tutta velocità in Place Colonel Fabien, XIX arrondissement, gli attentatori sbattono contro una Volkswagen rossa guidata da una donna. Provano a proseguire comunque in direzione della Porte de Pantin prima di arrendersi al fumo che esce dal cofano. In rue des Meaux, che scorre lungo il parco de Buttes-Chaumont, abbandonano la Citroën. A fucili spianati fanno scendere il conducente di una Clio grigia che arriva dall’altra parte della carreggiata. Prima di mettersi alla guida dell’auto accettano di consegnare all’uomo derubato il cagnolino che era rimasto sul sedile posteriore. Poi si dirigono verso Pantin. Sono da poco passate le 12.30. Qui si perdono le loro tracce.
L’ospedale d’emergenza per soccorrere i giornalisti di Charlie Hebdo è allestito nel teatro La Comédie Bastille, al numero 5 di rue Nicolas-Appert.
Alle 13 circa il presidente della Repubblica François Hollande accorre in rue Nicolas-Appert, mentre i feriti vengono ancora curati sul posto. Arriva davanti al palazzo ma non sale nella redazione. Si fa raccontare tutto dai poliziotti. «Presidente, è il più grave attentato dal dopoguerra», dice un agente. Un altro funzionario: «È il nostro 11 settembre». Hollande lancia subito un appello all’unità nazionale.
Alle 15 in una conferenza stampa il ministro dell’Interno francese Bernard Cazeneuve fa sapere che la polizia sta cercando tre uomini come responsabili dell’attentato. Si tratta dei fratelli Saïd e Chérif Kouachi, di 34 e 32 anni, e del presunto complice Hamid Mourad, classe 1996.
Nelle foto poi diffuse dalla polizia Saïd,il maggiore, è quello calvo e sbarbato, Chérif il minore, quello con i capelli neri e la barba da islamista ancora poco folta.
Dei due, come dice anche il ministro della Difesa Bernard Cazeneuve, solo Chérif ha già scontato una condanna di un anno e mezzo per aver fatto parte di una rete terrorista islamista, dal 2005 al 2006, mentre Saïd era noto alle autorità solamente per essere comparso «nei contorni del caso giudiziario del fratello». Di Saïd poi si viene a sapere che potrebbe essere stato addestrato in Yemen dalla divisione locale di Al Qaida.
È l’imam Farid Benyettou, che frequenta la moschea Adda’Wa di rue de Tanger, a indottrinare Chérif. Gli legge passi del Corano, nel quale, spiega, «si dice che è lecito imbracciare un Kalashnikov e fare fuoco contro gli infedeli». L’opera di proselitismo di Benyettou si traduce nella costruzione di una rete di aspiranti martiri per la guerra in Iraq, con annesso addestramento ideologico e pratico.
La banda des Buttes-Chaumont, i giornali la chiamarono così, per via delle riunioni all’aria aperta nel parco del XIX arrondissement che divide il quartiere arabo dalla zona turistica La Villette. Il giorno fatale dovrebbe essere il 25 gennaio 2005, partenza da Parigi verso l’Iraq. I biglietti sono già pronti. Chérif viene arrestato dopo la data di partenza. È rimasto a casa, racconterà in seguito di aver mancato l’appuntamento.
Chérif Kouachi a un certo punto l’ha proprio dichiarato: «È scritto nei sacri testi: è bene morire da martire». Lo disse in un’intervista a France 3 nel 2005, nove anni fa, ieri ripescata e rimandata in onda. In quella stessa intervista spiegava la sua ammirazione per quell’imam.
Quando Chérif torna libero comincia a portare pizze a domicilio, lavora al mercato del pesce, in un magazzino. La polizia sospetta che sia coinvolto nella liberazione di Smain Ait Alì Belkacem, mente degli attentati del 1995 in Francia rivendicati del Gia algerino. Lo ferma ma lo rilascia: non ci sono prove. Lo controlla a distanza. Per l’Fbi i due fratelli stavano nella “no fly list”.
Alle 16.30 di mercoledì 9 nessuno può entrare o uscire dalla banlieue «93», Seine-Saint-Denis, dove si pensa che si siano nascosti gli assalitori. Gli elicotteri della polizia sorvolano a decine l’area, i blindati bloccano le vie di accesso alle case popolari.
Mentre in tutta la Francia è in corso la caccia all’uomo, nel pomeriggio le piazze cominciano a riempirsi di manifestanti. Trentacinquemila a Parigi, oltre dodicimila a Lione. E poi Marsiglia, Rennes, Brest, Bordeaux, Lille. Molti hanno cartelli con la scritta «Je suis Charlie», o messaggi di sostegno ai giornalisti e alla libertà d’espressione. Qualcuno porta dei fiori, soprattutto rose bianche, deposti ai piedi della statua che raffigura la République. Tantissimi brandiscono penne e matite.
Le ricerche degli assalitori continuano. La prima perquisizione viene fatta in un appartamento di Pantin. Nel quartiere Croix Rouge invece la polizia circonda un edificio vicino a un liceo, mentre a Charleville-Mezières viene fermato un familiare dei Kouachi. Contemporaneamente le teste di cuoio, i corpi scelti dell’esercito francese, fanno irruzione in una casa nel quartiere della Croce rossa di Reims, tranquilla città dominata dalla celebre cattedrale, a 140 chilometri dalla capitale. La traccia che avrebbe fatto risalire all’identificazione è la carta d’identità del maggiore dei fratelli Kouachi, ritrovata nella Citroën abbandonata insieme a tre bottiglie molotov.
Il giovane Hamid Mourad, per un’intera giornata considerato il terzo uomo del commando alla guida dell’auto, si presenta nella notte di sua volontà al commissariato di Charleville-Mézières, nelle Ardenne, dove vivono i suoi genitori. Con sé porta un alibi che espone gli investigatori a una discreta figuraccia: all’ora dell’attentato si trovava a scuola, nel suo liceo, in un’altra città.
Giovedì 8 gennaio in Francia è giornata di lutto nazionale, fino a sabato le bandiere rimarranno a mezz’asta.
Poco dopo le 8 del mattino di giovedì, nel dipartimento Hauts-de-Seine, a ovest di Parigi, un uomo vestito di nero, con un giubbotto antiproiettile a bordo di una Clio bianca, uccide con un colpo alla gola una giovane vigilessa della polizia municipale, Clarissa Jean-Philippe, 25 anni, originaria della Martinica, in servizio da appena 15 giorni. Rimane ferito anche un suo collega. Mistero sulla dinamica dei fatti e sul movente. L’uomo è poi riuscito a scappare.
L’uccisione della vigilessa spinge il ministero degli Interni a mantenere l’allerta sul livello «rischio attentati». Il piano Vigipirate – creato nel 1978 e messo in atto per la prima volta durante la guerra del Golfo nel 1991 – aumenta il dispiegamento di uomini, ormai oltre 10mila tra la capitale e Nord del Paese, dove si concentra la caccia ai Kouachi.
La caccia ai due riprende con la telefonata fatta alle 10.30 dal benzinaio della stazione di servizio Avia sulla strada nazionale 2, appena dopo il villaggio di Crépy-en-Valois, 60 chilometri da Parigi, in Piccardia. Il commerciante afferma di aver riconosciuto i due fratelli negli uomini che stavano cercando di fare rifornimento a sbafo, di aver anche intravisto dei kalashnikov sui sedili posteriori dell’auto. Le riprese dalla telecamera di sorveglianza mostrano anche la targa coperta.
Per qualche ora si ritiene che i due ricercati stiano rientrando verso Parigi e così le porte a nord della città vengono blindate.
Alle 12 in punto tutta la Francia si ferma per un minuto di silenzio in memoria delle dodici vittime dell’assalto alla redazione di Charlie Hebdo, con le campane di Notre-Dame a lutto, i fiori, le candele, le bandiere a mezz’asta.
La ricerca ora si svolge nei boschi, in un’area di venti chilometri in lunghezza e dieci di larghezza, con 88mila uomini schierati, 20mila uomini dispiegati sul campo in assetto di guerra, da sommare agli altri 68mila che nel resto della Francia stanno braccando i due fratelli. All’operazione prendono parte elicotteri a raggi infrarossi, brigate e corpi speciali di ogni genere.
Alle 14 circa agenzie e dirette televisive accendono le luci su Crépy-en-Valois, a metà strada tra Parigi e Reims. «Sono barricati dentro un appartamento, le teste di cuoio sono sul posto». Il sindaco smentisce, il ministro Cazeneuve non conferma.
Alle 16 la Clio grigia usata dai presunti autori della strage viene ritrovata in un bosco appena fuori da una fattoria disabitata di Villers-Cotterêts, città natale di Alexandre Dumas. Le squadre d’élite della polizia e dell’esercito irrompono nell’abitazione, ma dei due attentatori nessuna traccia.
Alle 20.00 l’illuminazione della Torre Eiffel si spegne in segno di lutto.
Alla fine della giornata, la caccia ai due terroristi viene sospesa, gli agenti ricevono l’ordine di interrompere le ricerche nella foresta e di ritirarsi. Poi però, nella notte, dagli Stati Uniti la rete televisiva Cnn lancia la notizia: i due sarebbero stati avvistati dagli elicotteri. Non è così.
Venerdì 9 gennaio inizia con i fratelli Chérif e Said Kouachi che bloccano un automobilista a Montigny-Sainte-Félicité, nella zona a Nord-est di Parigi. Sono le 8.15. I due assassini di Charlie Hebdo si impadroniscono della macchina, una Peugeot 206, e si dirigono lungo la strada nazionale 2 (Rn2) che collega la campagna alla capitale. Non sono mascherati, il proprietario dell’auto li riconosce e dà l’allarme. La Rn2 è al momento la strada più controllata del mondo, i posti di blocco sono decine e appena i ricercati ne avvistano uno cercano di deviare. I poliziotti li stanno aspettando, c’è una sparatoria, Saïd Kouachi rimane ferito al collo. Comincia l’inseguimento. I due fratelli finiscono nella zona industriale di Dammartin-en-Goële, 8.058 abitanti a pochi chilometri dall’aeroporto Charles de Gaulle.
Sono le 9.30 quando i Kouachi si rifugiano nella tipografia Création Tendance Découverte che produce stampe e materiale pubblicitario, al numero civico 27 di rue Clément. Duecento metri quadrati su due piani. I due dicono di volere «morire da martiri». Un commerciante lì vicino si imbatte in uno dei due fratelli, che prima si presenta come un poliziotto per giustificare il fucile che sta imbracciando, poi gli chiede di andarsene stringendoli la mano e dicendogli, rassicurante: «Noi non uccidiamo civili».
[**Video_box_2**]Un dipendente dell’azienda, il contabile Lilian Lepère, 26 anni, si nasconde nei locali della tipografia, in uno scatolone, sotto a un lavandino. Da lì comunica all’esterno mandando sms alla polizia. È così che tra i media prende corpo l’idea che i terroristi abbiano preso un ostaggio, ma i fratelli Kouachi in realtà non sanno di averlo. Lepère ne approfitta e continuerà ad aiutare gli agenti fino al pomeriggio, informandoli di nascosto dei movimenti dei terroristi.
Alle 10, in redazione a Parigi, il reporter Igor Sahiri del canale all news BfmTv compone il numero della tipografia sperando di parlare con un dipendente o un testimone. Ad alzare la cornetta è invece lo stesso Chérif Kouachi. Dice al giornalista di agire per conto di «al Qaeda dello Yemen», di essere stato formato dall’imam Anwar Al Awaki (ucciso da un drone Usa nel settembre 2011), e giustifica la strage di Charlie Hebdo definendo lui e il fratello «difensori del Profeta». Di nuovo, assicura di non volere uccidere civili. E Charlie Hebdo? «Non erano civili, ma bersagli». L’emittente contatta il premier Manuel Valls e il ministero degli Interni, fornisce la registrazione. L’intesa è di non mandarla in onda finché la crisi non sarà conclusa.
Sempre intorno alle 10, ospitati nei locali di Libération a Parigi, i superstiti di Charlie Hebdo tengono la loro prima riunione di redazione della nuova era, quella senza Charb, Wolinksi e gli altri.
Alle 13.25 a Parigi, a Porte de Vincennes, un uomo armato di fucile d’assalto e kalashnikov fa irruzione sparando in un supermercato kosher, l’Hyper Cacher. Fa subito quattro vittime e prende in ostaggio una decina di persone, tra cui un bebè di otto mesi. «Sapete chi sono! Sapete chi sono!», grida. È Amedy Coulibaly, 32 anni, nato in Francia, origini maliane e una fedina penale molto sporca: otto condanne e sei anni in galera per rapina. Proprio in prigione avrebbe conosciuto Chérif Kouachi. La mattina precedente Coulibaly, a Montrouge, ha ucciso a sangue freddo l’agente municipale Clarissa Jean-Philippe. «Non c’è alcun legame con Charlie Hebdo», si erano affrettate a dichiarare le autorità. Purtroppo non è così.
Alle 15.10 dall’interno del negozio Coulibaly, decide di telefonare a BfmTv (anche questa telefonata sarà resa pubblica solo a fine giornata). «Ci siamo sincronizzati, io e i Kouachi», dice. Vuole essere messo in contatto con la polizia, con Hollande e col premier Valls. Spiega che con i Kouachi si erano divisi i compiti: «A loro Charlie Hebdo, a me i poliziotti». Aggiunge di essere affiliato allo Stato islamico. La telefonata dura 4 minuti.
Con Coulibaly ci dovrebbe essere la compagna e complice Hayat Boumeddiene, 26 anni. Alcune foto impressionanti li ritraggono, qualche anni fa, mentre si esercitano a usare pistola e balestra, lei coperta dal burqa.
Alle 16.56 le teste di cuoio entrano in azione nella copisteria di Dammartin. Alla prima avvisaglia del raid i fratelli Kouachi cercano il martirio uscendo allo scoperto: spalancano la porta principale e lanciano una granata. Una pioggia di proiettili li abbatte subito. Muoiono «con il kalashnikov in mano», dirà poi un ufficiale.
Poco dopo, alle 17.07, i reparti speciali della polizia entrano in azione anche nel supermercato kosher a Porte de Vincennes. Si verrà poi a sapere che Coulibaly aveva riattaccato male la cornetta quando aveva telefonato due ore prima, così gli investigatori hanno sentito che il terrorista iniziava alle 17 la sua preghiera, forse l’ultima, quella che doveva precedere il suo martirio. In quel momento danno l’ordine di intervenire. Alzano la saracinesca della porta principale e cominciano a fare fuoco. Si vedono chiaramente i corpi delle vittime, uccise subito, alle 13, e da allora rimaste lì, sul pavimento del supermercato. Uno di loro è morto con un colpo alla testa dopo aver preso un arma del terrorista, ma senza riuscire a sparare. I primi agenti entrano, gli altri continuano a sparare. Coulibaly va verso l’uscita, riesce quasi a imboccare la porta mentre si mette le mani alla testa come gesto di protezione, mentre gli agenti lo crivellano di colpi. Mentre Lassana Bathily, 24enne dipendente del negozio, è riuscito a salvarsi e a salvare almeno altre cinque persone nascondendole nella cella frigorifera nei sotterranei.
Dall’altra porta gli ostaggi corrono in modo disordinato, un papà tiene in braccio il suo neonato, una donna non sa dove andare e viene caricata sulle spalle da un agente. Tra loro, forse, c’è anche Hayat Boumeddiene, la compagna jihadista, che potrebbe essersi mescolata agli ostaggi per fuggire. Di lei in ogni caso si son perse le tracce.
Note: tutti i giornali italiani dell’8, 9 e 10/1; il Post.it; LeMonde.fr.
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