La notte dell'Ilva
Renzi guardi verso Taranto per difendere l’onorabilità dello stato
La protesta degli imprenditori e degli operai dell’indotto Ilva a Taranto è a un basso livello rispetto al potenziale – presidio in municipio, temporanei blocchi delle arterie autostradali – e per informale diffida delle autorità di polizia non è arrivata ai cancelli della fabbrica. Tuttavia non sono più molti gli operatori economici a credere che otterranno i crediti vantati verso la gestione commissariale, visto che l’avvio della procedura concorsuale in amministrazione straordinaria potrebbe penalizzarli, con risvolti fallimentari. Il presidente di Confindustria Taranto, Vincenzo Cesareo, parla a nome di centinaia di imprenditori quando sostiene che “se lo stato comincia a venire meno ai suoi impegni e a non pagare i suoi debiti questa Repubblica sia in grave difficoltà”. E’ lo sfogo di un imprenditore di una media azienda transnazionale, rispettabile e rispettato, non quel padrone fumantino dipinto da certi sindacalisti.
D’altronde dell’ultima tranche di pagamenti da 250 milioni asseverata dalle banche si ha contabilità solo dei primi 125, il commissario Piero Gnudi ne aveva promesso il saldo. Alcune aziende comunemente definite dell’indotto sono in realtà quintessenziali per la continuità produttiva del siderurgico. Senza manutenzione e logistica il gruppo Ilva – Taranto, Novi Ligure, Genova – si ferma. Si rincorrono altri segnali preoccupanti, il rischio di uno stallo è serio. Il decreto Ilva voluto dal premier Matteo Renzi soffre notevoli vizi giuridici che complicano il recupero di risorse sia emergenziali, per avviare la famosa newco, sia strutturali, per farla marciare. Il governo ambisce a risolvere la crisi industriale più grave d’Italia e restituire così la fiducia in uno stato capace di intraprendere con successo. La prospettiva è più misera e corrisponde alla cassa integrazione a rotazione per cinquemila addetti. E’ bene dunque voltare presto lo sguardo verso Taranto.
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