Sergio Mattarella (foto LaPresse)

Generazione fossile

Redazione

Che si tratti di Sergio Mattarella (probabile) o di Giuliano Amato (inverosimile, a questo punto), la prima tentazione è quella di evocare l’insospettabile centralità della Prima Repubblica. Sarà pure grigio ma è un capolavoro renziano.

Che si tratti di Sergio Mattarella (probabile) o di Giuliano Amato (inverosimile, a questo punto), la prima tentazione è quella di evocare l’insospettabile centralità della Prima Repubblica. Quasi una beffa cinica, un contrappasso della ragion politica in virtù del quale proprio lui, il Royal Baby che doveva disincantare, dinamizzandola, l’Italia delle foreste pietrificate, rammodernare lo stile e l’andatura di una nazione in mano ai burocrati, eccolo invece che si getta nell’impresa di un repêchage da un ancien régime vagamente pentapartitico.

 

In altre parole: ha avuto senso issare il vessillo del qui e ora, quell’#adesso con il quale erano stati trafitti i dinosauri di ogni vecchia ditta, con le loro corporazioni di complemento, se poi dal cilindro quirinalizio doveva spuntare una seduta spiritica scudocrociata? La prima risposta è ovviamente negativa: troppo alto, e non soltanto in termini d’immagine, l’obolo offerto ai piedi dell’unità del Partito democratico e del capriccio personale. Ma forse la chiave è appunto questa: il capriccio, anzi quel che dietro al capriccio palpita nemmeno troppo inconfessato. Mattarella (o chi per lui, ma a lui simile) è, sì, il prodotto del renzismo strafottente (per vocazione e metodo), una riproduzione seriale della sindrome di Caligola – il mio dc al Quirinale, ben sellato come un cavallo nel Senato dei Padri coscritti – ma è sopra ogni altra cosa la consacrazione di un “fossile politico”. Grigio quanto basta, inerte al tatto, incognito alle cronache mondane, il nuovo capo dello stato non rappresenterebbe la rivincita della Prima Repubblica ma la sua definitiva museificazione a beneficio di uno slittamento nel potere materiale dell’Italia renziana. Il vero manovratore – qui lo abbiamo scritto e riscritto – sta a Palazzo Chigi e può permettersi di assegnare al Quirinale la funzione di museo delle cere, teatro della lentezza, simulacro di un patriottismo da Istituto Luce; mentre il suo inquilino assurge al rango di statua vivente e promulgante decreti legge. A modo suo, un autentico capolavoro del non-più-pischello venuto da Firenze ad arieggiare le stanze romane con un ventaccio machiavellico e rinvigorente. Comunque vada, bleah e chapeau in un colpo solo.

 

[**Video_box_2**]Certo il Cav. ci ha messo, ci sta mettendo del suo. Salvi rivolgimenti e capriole di cui solo lui è capace come un circense invitto, Berlusconi si è ricacciato nello stesso guaio tattico in cui inciampò quando si trattava di eleggere Pietro Grasso alla presidenza del Senato. Poteva intestarsi l’operazione proto-nazarenica, s’è invece intestardito sul nomignolo di bandiera, Renatino Schifani. E’ andata come è andata, cioè maluccio. Adesso ci risiamo, con calibri diversi e altri fantasmini dentro casa (i fittiani, più temuti e infidi che pericolosi) a complicare la possibilità di dirsi ancora nazarenici senza apparire in mutande e non più tanto (politicamente) vivi. Ma la nottata è ancora lunga.