La grida manzoniana sulla corruzione
Pene inasprite e inefficaci, largo alle procure. La Pa, meglio riformarla. Se non si svilupperà l’impegno necessario nella riforma della Pubblica amministrazione, concentrando invece l’attenzione solo sull’aspetto punitivo della corruzione si avrà forse qualche applauso immediato, ma alla fine i cittadini non otterranno alcun miglioramento.
Celebrato dalla grande stampa come un passo avanti epocale nella lotta alla corruzione, l’accordo raggiunto dalla maggioranza di governo su un disegno di legge che in sostanza consiste in un inasprimento delle pene, ha tutto il sapore di una grida manzoniana. Ricapitolando, nel nuovo disegno di legge si aumenta la pena minima per il reato di corruzione da quattro a sei anni, mentre la massima passa da otto a dieci. Si tratta di un emendamento alla proposta di legge a suo tempo depositata dall’attuale presidente del Senato Pietro Grasso (che quindi evidentemente, in base alla sua esperienza riteneva inutile l’inasprimento delle pene). Anche le pene accessorie vengono elevate, quella che consiste nel divieto a intrattenere rapporti, cioè a concorrere agli appalti, con la Pubblica amministrazione, passa da tre a cinque anni. Inoltre si torna a procedere d’ufficio e non su denuncia di parte sul falso in bilancio, com’era fino al 2002, il che però non ebbe risultati eclatanti allora e, come spiega il magistrato trevigiano Carlo Nordio, non si vede perché dovrebbe averne di migliori ora. Si può anzi ipotizzare che la possibilità di procedere d’ufficio contro il falso in bilancio possa attivare una serie di attività ricattatorie o delatorie da parte di concorrenti o soggetti comunque ostili a un’impresa, che possono semplicemente far apparire una “notizia di reato” magari in forma anonima o attraverso insinuazioni, che poi può essere raccolta da un magistrato interessato più alla ribalta mediatica che alla persecuzione effettiva di reati. L’unico elemento della proposta di legge che può forse produrre qualche effetto è anche l’unico che riduce le pene, da un terzo alla metà, per chi collabora con la giustizia. Naturalmente anche questa norma, se non sarà usata con prudenza, può dare luogo ai fenomeni degenerativi del “pentitismo” di mafia, che a un certo punto è diventato quasi una categoria alle dipendenze delle procure, con effetti talora devastanti, come nel celebre caso di Massimo Ciancimino.
L’ampliamento della discrezionalità delle procure anche in questo caso sembra un cedimento a una concezione giustizialista che accredita alla magistratura la funzione di contrasto ai fenomeni degenerativi della Pubblica amministrazione, mentre il suo ruolo è solo quello di perseguire i singoli reati, mentre spetta al legislatore e all’esecutivo intervenire con le necessarie riforme e riorganizzazioni di sistema. Una espressione particolarmente impressionante di questa pericolosa tendenza è contenuta nell’impostazione della relazione del presidente del Consiglio di stato all’inaugurazione dell’Anno giudiziario. Giorgio Giovannini ha detto testualmente: “La scarsa efficienza delle pubbliche amministrazioni, le loro difficoltà operative, i fenomeni di corruttela vasti e ramificati che quasi quotidianamente vengono alla luce impongono la presenza di un giudice amministrativo forte, indipendente e autorevole”. La scarsa efficienza e le difficoltà operative delle pubbliche amministrazioni non sono reati, attengono alla cattiva organizzazione, all’eccesso di normativa, a criteri di selezione delle dirigenze e del personale inadatti o addirittura clientelari, al ritardo nell’adozione delle nuove tecnologie, a possibili altre cause che richiedono un’azione di riforma e di riorganizzazione da parte di chi ne ha la responsabilità, cioè dei soggetti politici, nazionali e locali, dai quali dipendono le varie amministrazioni, non certo alla magistratura (che peraltro, come amministrazione pubblica non mostra affatto profili di efficienza tali da potersi presentare come modello o impancare in una impropria funzione riformatrice che non le compete).
In sostanza, se accetta questa impostazione, il governo rinuncia a esercitare il suo compito specifico nella lotta contro le varie forme di degenerazione della Pubblica amministrazione, di cui la corruzione è l’aspetto più odioso ma non l’unico. Può essere comodo delegare questo compito alla magistratura, con uno spirito puramente punitivo che corrisponde ai bassi istinti di un’opinione pubblica manettara. Nella sostanza, però, si mancherebbe all’impegno assunto verso i cittadini di rendere il loro rapporto con lo stato più sostenibile e sopportabile, rendendo più rapide e semplici le procedure, disboscando la selva inestricabile di norme spesso contraddittorie e inapplicabili, rendendo amichevole il comportamento dei funzionari e moderno il sistema di trattamento delle informazioni in modo da fornire i servizi in tempi ragionevoli.
Se non si svilupperà l’impegno necessario nella riforma della Pubblica amministrazione, concentrando invece l’attenzione solo sull’aspetto punitivo della corruzione (che spesso è favorita proprio dalla selva di normativa che consente di fatto comportamenti eccessivamente discrezionali) si avrà forse qualche applauso immediato, ma alla fine i cittadini non otterranno alcun miglioramento nel loro logorante rapporto con la Pubblica amministrazione. Aumentare le pene, estendere l’area di discrezionalità delle procure, oltre che presentare profili di pericolosità per l’impiego che può essere fatto di questi accresciuti poteri da parte dell’ala giustizialista e politicizzata della magistratura, non spostano di un millimetro la frontiera della lotta contro la corruzione e le altre forme di degenerazione della mano pubblica. Se, come si dice, è questo il primo frutto della sospensione del patto del Nazareno, c’è da preoccuparsi di quello che seguirà.
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