Liberi capitali in libere farmacie. Perché è utile (a tutti)

Redazione

Il ddl Concorrenza, quel che c’è di buono, le opposizioni pretestuose, e quanto pagheremo le resistenze corporative.

Roma. Incassato l’obiettivo principale, cioè il mantenimento del monopolio legale delle farmacie sulla vendita dei farmaci di fascia C (un business da miliardi di euro), il mondo delle farmacie sta ora iniziando ad agitarsi contro gli altri interventi sul settore farmaceutico presenti nel ddl Concorrenza presentato la scorsa settimana dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e dal ministro dello Sviluppo, Federica Guidi. Sul sito di Federfarma fanno capolino dichiarazioni al vetriolo contro la possibilità di trasformare le farmacie in società di capitali (con soci anche non farmacisti, dunque) e l’eliminazione del tetto delle quattro farmacie di proprietà, misure previste dal disegno di legge governativo. “Far entrare il grande capitale nella proprietà delle farmacie significherebbe ridurre le garanzie a favore dei cittadini”, tuona il sindacato delle farmacie, evocando anche la Corte di giustizia europea che in una sentenza del 2009 avrebbe “riconosciuto come affidare la proprietà della farmacia a non farmacisti comporterebbe una riduzione dell’indipendenza professionale”. L’argomento anticapitalistico è francamente pregiudiziale, poco coerente con l’esperienza di altri paesi europei. Proprio come accaduto altrove, infatti, la nascita di gruppi di farmacie “all’anglosassone” può produrre maggiori economie di scala nella distribuzione e uno stimolo concreto alla concorrenza, con effetti benefici sul prezzo finale dei farmaci per i cittadini.

 

In prospettiva, come segnala Nicola Salerno (economista del think tank Reforming.it), catene di farmacie più grandi e solide possono favorire l’evoluzione verso un modello di “farmacia dei servizi”: un centro che eroga servizi per la salute, non un negozio gestito da laureati e commessi di lusso. Va superato il modello romantico, da piccolo mondo antico, della farmacia gestita dal notabile di paese o di quartiere, spesso figlio d’arte. Le farmacie sono una rete, più diffusa degli sportelli postali, certamente più capillare del Sistema sanitario pubblico: possono e debbono dunque diventare veri poli di assistenza ambulatoriale, preziosissimi per una società sempre più anziana e sempre più allergica alla ospedalizzazione. Ma c’è bisogno di spazi, di personale, di tecnologia e per questo non si può prescindere dall’afflusso di investitori esterni, di capitale di rischio e di logiche manageriali. Soldi privati, in un mondo che non ha più alcuna possibilità di reperire risorse pubbliche.

 

Perché mai l’incorporation – cioè la svolta delle farmacie in società di capitali – ridurrebbe le garanzie per i cittadini? C’è chi sostiene che la concorrenza sul prezzo spingerebbe i cittadini a comprare troppi medicinali, ad abusarne; si insinua probabilmente che una catena di farmacie anteporrebbe gli obiettivi di fatturato alla salute dei pazienti. E’ un riflesso ideologico. Nessuno discute la correttezza deontologica dei farmacisti titolari di farmacia: sono costoro a dubitare della professionalità e della deontologia dei loro colleghi titolari di parafarmacia o dei futuri dipendenti di una catena di farmacie. Peraltro le nuove norme non contestano ma riaffermano con forza che la direzione della farmacia e l’intermediazione del farmaco con il paziente restano prerogativa e responsabilità unica del farmacista.

 

[**Video_box_2**]Sull’altra critica posta da Federfarma, una supposta contrarietà della Corte di giustizia europea alla societarizzazione delle farmacie, Salerno è perentorio: “Sia la Corte costituzionale che la Corte di giustizia europea si sono in più occasioni limitate a riconoscere la legittimità del modello italiano, con pianta organica a numero chiuso e farmacie in regime di monopolio sulla vendita di molte categorie di farmaco. Non hanno mai affermato la superiorità di questo modello rispetto a quello alternativo, per esempio vigente nel Regno Unito, caratterizzato dall’assenza di limiti per l’apertura di farmacie e dalla presenza massiccia di catene di proprietà di grandi gruppi”.

 

Il pericoloso “dualismo” in parafarmacia

 

A ben guardare, comunque, i rischi maggiori delle nuove norme del ddl Concorrenza vengono dalla poca liberalizzazione del settore, non dal troppo mercato. Il combinato disposto di mantenimento della pianta organica (cioè il numero chiuso delle farmacie) e monopolio della vendita dei farmaci di fascia A e C fa sì che le nuove regole potrebbero anche comportare un aumento del grado di concentrazione dell’offerta. Le liberalizzazioni andrebbero fatte per intero, perché a restare in mezzo al guado si rischia di fare pasticci. Anni fa, anziché eliminare il numero chiuso delle farmacie (intervenendo magari con regole e remunerazioni ad hoc per le farmacie nelle zone svantaggiate), si scelse drammaticamente la via del dualismo: farmacie e parafarmacie, un po’ come i contratti protetti dal vecchio articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e contratti precari.

 

Si discute e si litiga dal 2012 sulla possibile vendita di antidolorifici o ansiolitici anche in parafarmacia, mettendo gli uni contro gli altri i Paperoni e i Paperoga della professione, anziché compiere la scelta più radicale ed equa che c’è: decretare che ogni farmacista è davvero uguale a tutti gli altri e riconoscere a tutti loro la libertà di aprire una farmacia.

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