Il no a Di Matteo del Csm e la capitolazione dell'antimafia all'amatriciana
Il procuratore palermitano Nino di Matteo, scartato dal Consiglio superiore della magistratura che doveva scegliere un magistrato da inserire nella Procura nazionale antimafia, reagisce esprimendo amarezza, delusione e preoccupazione. Amarezza e delusione sono comprensibili e ovvie, la preoccupazione, invece, merita un approfondimento. La preoccupazione infatti è motivata dalla constatazione che “tra i criteri del Csm continua a incidere pesantemente la logica dell’appartenenza correntizia”. Non è una novità, e non dovrebbe esserlo neppure per Di Matteo, che se ha alle spalle una corriera pluridecennale che gli ha consentito di promuovere l’inchiesta sulla cosiddetta trattativa tra stato e mafia e persino a interrogare Giorgio Napolitano al Quirinale, qualche santo nel paradiso correntizio della magistratura associata deve pur averlo avuto. Ora ha annunciato che farà ricorso al Tar contro la decisione del Csm, e già il fatto che le decisioni di nomina di un organo istituzionale che decide attraverso votazioni, il che implica che dispone di un margine di discrezionalità riconosciuto, possano essere annullate da un tribunale amministrativo fa rizzare i capelli in testa. Ciò nondimeno, Di Matteo si proclama “uomo delle istituzioni”. Evidentemente di quelle che gli danno ragione e gli fanno fare carriera, le altre, compreso l’organo di governo della magistratura, non meritano evidentemente la sua considerazione.
In un momento di ira, Di Matteo dice anche una verità indigesta al partito delle procure, di cui è pure un esponente di punta: “Se non vogliamo contribuire anche noi a limitare l’autonomia e l’indipendenza dei singoli magistrati dobbiamo guardare al pericolo esterno, ma anche a quello interno, il condizionamento improprio delle correnti del Csm”. Non manca nemmeno l’appello demagogico ai “tanti cittadini che non perdono occasione di dimostrarmi stima e fiducia”, secondo la deriva populista che attraversa oramai da anni il partito delle procure. Di Matteo non lo dice, ma è evidente che sulla decisione a lui avversa abbiano pesato i dubbi crescenti sulla sgangherata inchiesta sulla cosiddetta "trattativa", l’insistenza con cui ha cercato persino di utilizzare intercettazioni del Quirinale, che alla fine, in seguito a una opposizione formale di Napolitano, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili. Si vede che anche la Consulta non fa parte di quelle istituzioni di cui Di Matteo si definisce servitore. Ma se non c’è nel suo breve elenco il Parlamento, che sarebbe quello dal quale nascono i “pericoli esterni”, e tantomeno il governo, se non c’è né il Csm né la Corte costituzionale e tanto meno il Quirinale, che cosa rimane? Solo Di Matteo stesso, un’istituzione personale riconociuta solo da lui.
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