Il blocco ambientale
Il coordinamento “No Triv” si organizza per fermare la ricerca di petrolio e gas in mare, sbloccata nel 2012 dal governo Monti e dal decreto Sviluppo renziano. E’ sempre meglio usare il condizionale: una piccola impresa siciliana ha appena aperto un cantiere esplorativo terrestre tra Comiso e Modica, dopo sette anni di blocchi burocratici; i 25 dipendenti e l’investimento di 35 milioni aumenteranno se si troverà il greggio, si azzereranno in caso di nuovi ostacoli di legge. Che i problemi non riguardino solo la ricerca off shore lo testimonia la manifestazione organizzata a Potenza da 1.200 lavoratori della Val d’Agri per chiedere lo sblocco delle trivellazioni in Basilicata. La regione è però con Abruzzo, Marche, Veneto e Puglia tra le cinque che entro il 30 settembre intendono chiedere un referendum abrogativo, la prossima primavera e senza le 500 mila firme popolari, delle norme che autorizzano la ricerca terrestre e marina, in base a presunti rischi ambientali.
La Sicilia potrebbe unirsi. Non sono solo ragioni economiche – la disoccupazione del sud – a suggerire di non frapporre altri ostacoli. C’è il buon senso: si dovrebbero costringere le major a investire nelle migliori tecnologie, anche con ricadute occupazionali, anziché farle fuggire altrove. Mentre il rischio di inquinamento di una nave petroliera è assai più elevato di quello di una piattaforma. Senza contare che la politica energetica è di competenza statale, non regionale, che non può fare mondo a se stante, salvo bussare a quattrini o lamentarsi del proprio sottosviluppo. Abbiamo già visto questo film, dalla Tav all’acqua: cambiate pellicola.
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