Cosa sappiamo davvero del mostro Bossetti
«Volete sapere come sto veramente? Da schifo! Con una dignità completamente distrutta, continuamente stuprata dai media, e tutti i giorni, mesi e forse anni trascorsi ingiustamente in questa cella per i loro dannati sbagli» (dalla lettera firmata da Massimo Bossetti, pubblicata mercoledì scorso dal settimanale Oggi).
Giangavino Sulas, Oggi 13/1/216;
Massimo Bossetti, 45 anni, di Mapello, è stato arrestato il 16 giugno 2014 ed è sotto processo dal 3 luglio 2015 per l’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio, scomparsa da Brembate di Sopra (Bergamo) il 26 novembre 2010 e ritrovata cadavere in un campo di Chignolo il 26 febbraio 2011.
Nelle tre pagine di sfogo inviate a Oggi Bossetti si dipinge come una vittima, ingiustamente in cella da oltre cinquecento giorni e trattato «come se fossi un latitante mafioso». Parla anche del suo arresto: «Dopo aver visto uno straziante, indegno, vergognoso video sul mio arresto, penso che non ci sia altro da dirvi visto le modalità che un italiano viene trattato nella maniera più indegna, schifosa, questa è una vergogna nella vergogna».
Giangavino Sulas, Oggi 13/1/216;
«Assenza di freni inibitori... Particolare efferatezza nell’esecuzione del delitto... Casualità nella scelta della vittima...». Queste le motivazioni con le quali, a fine dicembre, la Corte d’Assise ha respinto la richiesta di arresti domiciliari per Bossetti. Giangavino Sulas: «Più che valutazioni di merito sembrano motivazioni di una sentenza. Ma il processo è solo a metà strada. Devono ancora sfilare molti testimoni. Il mistero di quel Dna mitocondriale che non appartiene a Bossetti nessuno l’ha saputo spiegare».
Giangavino Sulas, Oggi 31/12/2015;
All’inizio del processo sembravano esserci due elementi schiaccianti: il Dna ritrovato sui leggings e sulle mutandine di Yara compatibile al 99,99999987% con quello di Bossetti e le immagini del suo furgone, il cassonato Iveco Daily, che passa avanti e indietro per tre quarti d’ora davanti alla palestra di Brembate e alla casa della ragazzina la sera della sua scomparsa.
Paolo Colonnello, La Stampa 28/2/2015;
Oggi questi elementi non sono più così certi. In particolare, per quanto riguarda il Dna, i due ufficiali dei Ris che hanno eseguito la perizia sugli indumenti di Yara – Nicola Staiti e Fabiano Gentile – interrogati dalla difesa venerdì 6 novembre, hanno ammesso di non poter rispondere alle domande sugli stessi dati che avevano fornito, il cosiddetti Raw data degli esami sul Dna, la «brutta copia» dei test decisivi che hanno incastro Bossetti. Non si ricordavano, ad esempio, quante volte abbiano ripetuto l’esame del Dna di «Ignoto 1» e quali kit (ossia i reagenti) abbiano usato per estrarlo.
Luca Telese, Libero 8/11/2015;
Ha spiegato Luca Telese: «Qual è il grande problema dello slip di Yara, il reperto che incastra Bossetti? Che quando è stato esaminato il muratore di Mapello, come è noto, non era nemmeno stato individuato. Quindi l’esame non è avvenuto (non era possibile) né alla presenza dei suoi avvocati, come si dice, “in garanzia”. Chi e cosa, dunque, si chiedono gli avvocati, può garantire Bossetti dall’idea di un possibile errore? Contrariamente a tutte le altre prove, quel test del Dna non è stato nemmeno filmato. È diventato, insomma, un dogma di fede dei Ris».
Luca Telese, Libero 8/11/2015;
Poi durante la ventiduesima udienza del processo, lo scorso 8 gennaio, nell’aula della Corte d’Assise si è vista franare sotto i colpi del consulente della difesa Ezio Denti, quella che l’accusa considera la seconda prova in ordine di importanza contro l’imputato Massimo Bossetti: le immagini del camioncino del muratore che per un’ora avrebbe girato attorno alla palestra in attesa di rapire Yara.
Giangavino Sulas, Oggi 13/1/216;
Già questa prova era uscita molto compromessa dall’udienza nella quale il colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma, era stato costretto ad ammettere che i Carabinieri, d’accordo con la Procura, avevano assemblato un collage di immagini del cassonato assolutamente illeggibili per ricavare un filmato da consegnare alla stampa. «Esigenze di informazione», aveva detto il colonnello. Un video fatto apposta per costruire la figura del predatore-Bossetti. Nel fascicolo processuale infatti sono rimaste solo due immagini del camioncino considerate attendibili. Le altre, lo ha detto lo stesso Pm, «non le abbiamo accluse agli atti».
Giangavino Sulas, Oggi 13/1/216;
Nell’udienza dell’8 gennaio l’investigatore privato Ezio Denti ha incrinato anche l’attendibilità delle due immagini rimaste. Il camioncino mostrato nei fotogrammi delle telecamere della Polynt 1 e Polynt 2, un’azienda accanto alla palestra di Yara, non è quello di Bossetti per evidenti differenze: nel “passo” (ovvero distanza fra il centro della ruota anteriore e quello della ruota posteriore), nel portapacchi e nella cassetta portattrezzi sulla fiancata.
Luca Telese, Libero 9/1/2016;
E Denti ha assestato un altro colpo mostrando ancora il video della Polynt. Pochi secondi dopo il passaggio del presunto camioncino di Bossetti nel filmato ne appare un altro proveniente in senso contrario. È bianco, identico (almeno nelle immagini in bianco e nero, perché quello di Bossetti non è bianco ma verde acquamarina) a quello del muratore di Mapello. «E questo automezzo di chi è? L’avete mai controllato? Eppure ha un “passo” identico a quello che voi attribuite a quello di Bossetti», dice Denti. Imbarazzo in aula. Solo la Pm chiede: «Me lo fa rivedere? Ma a che ora è passato?».
Giangavino Sulas, Oggi 13/1/216;
Luca Telese: «Piovono furgoni. O meglio cadono, nel processo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Anzi, sarebbe ancora meglio dire che decadono, dal rango di prova regina della presenza del muratore di Mapello nei pressi della palestra di Yara, a quello di indizio forse addirittura insignificante (perché non più identificabile in modo certo). La difesa, per di più, riesce a dimostrare, addirittura, producendo fotografie e generalità dei proprietari, che ci sono altri furgoni (quasi identici a quello di Bossetti) non presenti nella lista di quelli esaminati dall’accusa. Otto di questi circolano addirittura nel territorio della provincia di Bergamo. Due di loro, non solo sono esteticamente simili, ma hanno addirittura lo stesso lo stesso cassone di quello di Bossetti, una lunghezza identifica a quella indicata dalla procura. Un terremoto».
Luca Telese, Libero 9/1/2016;
Intanto Bossetti scrive molto in carcere a Bergamo, nella cella che condivide con un altro detenuto della sezione speciale. Di recente si è saputo che a luglio, prima che iniziasse il dibattimento, il carpentiere aveva consegnato una lettera a Claudio Salvagni, uno dei suoi due avvocati, indirizzata ai genitori di Yara: «Mi ha solo detto di darla nel momento che ritengo più opportuno. Credo sia la fine del processo». C’è poi la lettera che Bossetti ha letto dal pulpito, al funerale del padre Giovanni, il 29 dicembre, a Terno d’Isola: «Papà, questa perdita ha lasciato un vuoto incolmabile. Dolore nel dolore».
Giuliana Ubbiali, Corriere della Sera 9/1/2016;
Armando Di Landro e Giuliana Ubbiali: «Finito il funerale, prima di tornare in carcere l’ultimo abbraccio per Bossetti è della sorella gemella Laura Letizia. Gli altri proseguono a piedi verso il cimitero, dove la moglie Marita Comi rimane nell’ombra della discrezione, per poi avvicinarsi alla suocera Ester Arzuffi e abbracciarla. La madre e la moglie, le due donne che il giorno dell’arresto di Massimo si sono scontrate. “Dovevi dirmelo”, le aveva urlato Marita riferendosi alle indagini sul Dna: il suo “Massi” è figlio naturale dell’autista di Gorno Giuseppe Guerinoni, non di Giovanni Bossetti».
Armando Di Landro, Corriere della Sera 28/12/2015;
Tutto era accaduto in quei giorni di metà giugno del 2014: mentre gli investigatori, nei laboratori dell’Università di Pavia, erano vicini a scoprire un legame di parentela diretto tra la traccia di Ignoto 1 e quella della madre Ester Arzuffi, per poi arrivare a lui, il figlio Massimo, il papà Giovanni veniva ricoverato per la prima volta. Da alcuni mesi si sentiva poco bene. Ed era a casa, prima di tornare nuovamente in ospedale, anche quel giorno in cui la foto di suo figlio aveva iniziato a rimbalzare sul piccolo schermo: il volto di un uomo accusato di un delitto atroce. La storia delle indagini si è intrecciata, inevitabilmente, con quella di due famiglie, i Bossetti e i Guerinoni.
Armando Di Landro, Corriere della Sera 28/12/2015.
A cura di Luca D'Ammando
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