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Rischia di sgonfiarsi la bolla strumentale creata ad arte attorno alla tragedia del caso Regeni, il giovane ricercatore italiano ucciso al Cairo in circostanze ancora da chiarire, forse con il coinvolgimento degli apparati di sicurezza del paese nordafricano. Per la morte di Giulio Regeni non ci sarà mai risarcimento che tenga. Tuttavia alle legittime richieste di chiarezza sull’accaduto, specie da parte di famigliari e colleghi, si è intrecciata fin da subito una polemica dal duplice fine. Primo obiettivo: delegittimare il governo del generale egiziano al Sisi, bastione avverso all’islam politico. Una polemica – specie quando viene da paladini di Hezbollah (vedi D’Alema) et similia – che non può che apparire speciosa, venata da un funesto doppio standard già visto all’opera ai tempi della rivoluzione di Khomeini in Iran o dell’insurrezione islamista in Algeria.
Secondo obiettivo di alcuni commentatori: il governo Renzi, colpevole per definizione di connivenza con al Sisi. Solo che tale debolezza di Palazzo Chigi, come argomentava ieri Alessandro Orsini sul Messaggero, per ora non si vede: l’Italia “ha letteralmente imposto all’Egitto di consegnare il cadavere di Regeni”, fatto per nulla scontato come dimostrano precedenti analoghi; dopodiché, su pressing di Roma, il Cairo “ha dovuto accettare una ‘sospensione’ della propria sovranità nazionale, accogliendo una squadra di investigatori italiani”; poi Palazzo Chigi ha ottenuto l’accesso al paese di pm italiani e l’appoggio di Bruxelles. Spiacerà a quelli del tanto peggio-tanto meglio ma, conclude Orsini, “non sono privilegi che vengono accordati ai paesi deboli”. Ergo, anche i polemisti italiani “avranno un bel da fare per comprendere perché gli altri ci trattano da grandi mentre noi ci immaginiamo piccoli”.
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