Quello che Rodotà & co. volutamente tralasciano a proposito dell'acqua pubblica (e dei referendum)
Stefano Rodotà ha la penna facile, e questo lo induce ad affastellare argomentazioni a sostegno delle sue tesi, senza neppure troppa attenzione alla precisione. Ora se la prende con il governo che vorrebbe capovolgere il verdetto del referendum del 2011 che, secondo lui, vieterebbe l’ingresso dei privati nelle società che gestiscono la distribuzione idrica.
Non era questo che diceva il referendum, perché dire che l’acqua è un bene pubblico non implica che solo società integralmente pubbliche, che secondo tutti i dati statistici sono le più costose e le meno efficienti, possano gestire quel servizio.
Rodotà la prende da lontano, cominciando col difendere il significato generale dei referendum, ma anche qui usa concetti fuorvianti, come quando sostiene che in quello indetto per il 17 aprile “si voterà per dire si o no alle trivellazioni nell’Adriatico”, il che non è vero. Il paralogismo è sempre lo stesso: si attribuisce al quesito referendario un valore che defalca ampiamente dal suo effettivo significato, per poi considerare un “tradimento” della volontà popolare qualsiasi decisione che contrasti con quella indebita estensione, visto che una effettiva reintegrazione della norma abrogata sarebbe sanzionata dalla Corte costituzionale.
Stefano Rodotà
“Se il voto di milioni di persone può essere aggirato e messo nel nulla – spiega il professore – il disincanto e il distacco dei cittadini cresceranno e crollerà l’affidabilità degli strumenti democratici se una maggioranza parlamentare può impunemente stravolgerli”. A parte che anche una maggioranza parlamentare è rappresentativa di milioni di elettori, se Rodotà scendesse dall’empireo dei “diritti” per guardare alla realtà delle cose, forse si renderebbe conto che quello che infastidisce i cittadini è di pagare tanto cari servizi poco efficienti gestiti da clientele di incompetenti, anche se sono di nomina pubblica, anzi forse proprio per quello.
Se davvero Rodotà volesse contribuire a costruire quella che chiama una “democrazia della fiducia” dovrebbe in primo luogo capire da dove nasce la sfiducia, a cominciare proprio da quella selva di enti pubblici costosi e inefficienti che invece difende con tanta ingiustificata passione.
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