Una delle ultime immagini di Davide Trentini, malato di Sla, morto in Svizzera

Così si sfrutta l'umana commozione per introdurre l'eutanasia

Redazione

La “dolce morte” di Davide Trentini viene utilizzata da giornali e politici per rilanciare l'idea che l'Italia è “in ritardo” e che il suicidio assistito è “un diritto” 

In concomitanza con la fase più delicata della discussione parlamentare sul testamento biologico, che riprenderà subito dopo Pasqua, si assiste a una serie di iniziative del movimento che sostiene apertamente l’eutanasia. Casi dolorosi di persone che hanno perso ogni speranza, che si fanno uccidere in Svizzera nonostante le loro patologie non siano in stato terminale, vengono largamente propagandati. L’idea che si vuole far passare è che l’Italia sia “in ritardo”, che i suoi cittadini siano privi di un diritto fondamentale, quello al suicidio assistito, per colpa della “politica che non sa decidere”. In quasi tutti i notiziari televisivi questo è il messaggio che viene diffuso.

 

L'ultimo caso è quello di Davide Trentini, 52 anni, malato di Sla, che proprio ieri è morto in Svizzera dove era stato accompagnato da Mina Welby per sottoporsi ad eutanasia. Nella sua lettera d'addio, oltre ad augurarsi la legalizzazione della marijuana terapeutica, Trentini scrive: “Spero tanto che l’Italia diventi un Paese più civile, facendo finalmente una legge che permetta di porre fine a sofferenze enormi, senza fine, senza rimedio, a casa propria, vicino ai propri cari, senza dover andare all’estero, con tutte le difficoltà del caso, senza spese eccessive”.

 

 

 

Contemporaneamente si sostiene, nel dibattito parlamentare, che non si va verso l’eutanasia, che resta contraria all’ordinamento italiano. Però, mentre si fanno queste dichiarazioni, si introducono nella legge meccanismi che consentono, anzi obbligano la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione, che vengono artificiosamente definite come terapie. Si scivola sempre più verso l’eutanasia, si annulla il discernimento professionale dei medici, si creano meccanismi di morte rigidi e non derogabili. Però, si dice, questo non ha nulla a che vedere con l’eutanasia.

  

 

Il meccanismo mediatico è semplice: si sfrutta l’umana commozione per casi disperati per promuovere come un valore l’eutanasia consentita all’estero, si crea un clima che rende più difficile la definizione di limiti all’esecuzione di disposizioni preventive di cessazione delle terapie, il che porta a una estensione indebita del principio di accanimento terapeutico, che arriva fino a considerare tale il semplice atto di dare da bere a chi non è in grado di farlo personalmente.

 

L’uso strumentale di questa tattica da parte di chi intende promuovere l’eutanasia è comprensibile, quello che invece lascia davvero perplessi è l’assenza di un minimo di senso critico da parte del sistema informativo. L’uso spregiudicato dell’esibizione del dolore trasformato in strumento di propaganda politica non trova alcun argine, non provoca reazioni e confronti, dilaga senza limiti. In questo modo si crea un senso comune che trascura di preoccuparsi della intangibilità della vita umana, che è invece il fondamento di ogni convivenza basata sulla libertà e non sulla sottomissione. Quella tv del dolore che sembrava solo un mediocre riempitivo a basso costo di palinsesti, ora che viene trasformata in insidiosa campagna politica, dimostra tutta la sua perniciosa efficacia, talmente intrusiva da scoraggiare ogni reazione critica. Così si capovolgono i valori e i principi, far morire di sete una persona appare come un atto umanitario, opporsi a questa forma di tortura diventa una prova di insensibilità. Altro che post-verità.