Così i liberali del pensiero vogliono censurare il manifesto di ProVita
Già avviata la rimozione della gigantografia apparsa a Roma. Ma a volte, per scatenare una giusta reazione, è necessario un evento scandaloso
È vero. È un manifesto scandaloso. A passarci sotto lo sguardo e la coscienza ci “inciampano”, come vuole l’etimo greco di “scandalo”. È una pietra che urta e può addirittura ferire. Ma, come si legge nel Vangelo, “è necessario che gli scandali avvengano”. E anche chi non è religioso o non ha altro dio all'infuori della scienza, difficilmente potrà sostenere che le frasi stampate su quel cartellone gigante sono false o offensive.
“Eppure quel manifesto sta per essere tolto”, spiega al Foglio Alessandro Fiore, portavoce e responsabile della comunicazione dell’associazione ProVita. Lo scorso 3 aprile la Onlus ha affisso a Roma in via Gregorio VII la gigantografia di un feto all'interno del grembo materno e ha dato così il via a una serie di iniziative in vista dei 40 anni della legge 194 sull'aborto, entrata in vigore il 22 maggio 1978. Sotto l’immagine del bambino – una riproduzione grafica fatta da un centro medico, computerizzata ma fedele alla biologia – alcune scritte: “Tu eri così a 11 settimane. Tutti i tuoi organi erano presenti. Il tuo cuore batteva già dalla terza settimana dopo il concepimento. Già ti succhiavi il pollice. E ora sei qui perché la tua mamma non ha abortito”.
Mentre parliamo al telefono, ci dice Fiore di ProVita, “la rimozione del manifesto forse è già avvenuta o sta per avvenire”. “È da ieri sera (5 aprile ndr) che cerchiamo di ottenere dal Comune una comunicazione ufficiale, scritta e motivata. Per ora c’è stata solo una telefonata ma non l’abbiamo ricevuta noi: il Campidoglio ha chiamato la società che gestisce il cartellone e ha dato ordine di rimuoverlo”. Il manifesto infatti ha scandalizzato, com’era nelle intenzioni di chi lo ha pensato, tanto che alcune donne del Pd e della Lista Civica “RomaTornaRoma” sono arrivate a presentare una mozione “per chiedere al Campidoglio la rimozione immediata”. “Si tratta di immagini che offendono la sensibilità anche di tutte le persone che hanno subìto la fine di una gravidanza per i motivi più diversi. Difendere la vita con messaggi così crudi e violenti non appartiene alla storia delle donne, né della città", hanno scritto in una nota congiunta le consigliere capitoline Michela Di Biase, Valeria Baglio, Ilaria Piccolo, Giulia Tempesta e Svetlana Celli.
“Ci opporremo in via legale alla rimozione”, controbatte Fiore “ma non avendo in mano niente di scritto, aspettiamo di leggere le motivazioni”. ProVita già le immagina, queste ragioni, “perché il Comune ci aveva impedito anche in passato di affiggere dei poster, giustificando il divieto con una violazione dei diritti civili”. Tra i quali, apparentemente, il diritto alla libertà di espressione non è contemplato. Monica Cirinnà ha twittato: “Vergognoso che per le strade di Roma si permettano manifesti contro una legge dello stato e contro il diritto di scelta delle donne #rimozionesubito”. E per fortuna che sotto alla foto profilo della senatrice Pd campeggia lo slogan: “Sono per la libertà di pensiero e di parola”.
Vergognoso che per le strade di Roma si permettano manifesti contro una legge dello Stato e contro il diritto di scelta delle donne #rimozionesubito https://t.co/fjW0mkGKvz
— Monica Cirinnà (@MonicaCirinna) 5 aprile 2018
“Alcuni politici come Cirinnà – conclude Fiore – dicono che non si può criticare la legge, ma la critica non c’è nemmeno. Il manifesto dice solo delle verità biologiche, incontrovertibili, anche lapalissiane. A maggio intensificheremo questa campagna. E il bambino potrebbe anche ritornare”.
Il filosofo Umberto Galimberti, sull’Espresso del 2008, scriveva: “Se avete bisogno degli strumenti giuridici per difendere la vostra morale imponendola a tutti, dimostrate solo la debolezza della vostra fede che, se ricorre al dispositivo legislativo, vuol dire che più non si fida del convincimento delle coscienze”. Un articolo scritto per difendere il “diritto delle donne ad abortire”. Valgono ancora quelle parole? E valgono anche per i laici? O l'unica strada percorribile è quella della censura dei pensieri dissonanti, come nelle teocrazie più grifagne?