I paradossi della vicenda Alfie Evans, bambino inguaribile ma non incurabile
La polizia per fermare il padre che voleva portarlo via
La prima notizia a proposito di Alfie Evans è che la data della sua morte è stata decisa, ma non può essere comunicata “per rispetto della sua privacy”, come ha scritto questo giornale. Oggi il padre, Tom, ha denunciato su Facebook di avere cercato di portarlo via dall’ospedale di Liverpool in cui è ricoverato: aveva con sé un parere legale che diceva che secondo la legge inglese nessuno avrebbe potuto impedirglielo, bastava che avesse con sé i macchinari per la ventilazione a cui attaccare Alfie. Il personale dell’ospedale ha quindi chiamato la polizia per impedire a Tom di uscire con il piccolo, che stando ad alcune fonti dovrebbe essere staccato dai macchinari che lo tengono in vita oggi.
Sono molti i paradossi che avvolgono la sorte di questo bambino inglese, al centro di un caso simile ma non identico a quello che ha coinvolto un altro piccolo di cui molto s’è dibattuto solo poco tempo fa, Charlie Gard. Ma, mentre per quest’ultimo i sospetti che le cure cui era sottoposto avevano portato gli esperti a dividersi fra quanti riconoscevano un caso di accanimento terapeutico e quanti lo escludevano, nel caso di Alfie la situazione, pur estremamente complicata e misteriosa, non è di accanimento. Siamo in presenza di un bambino con patologia ad eziologia indeterminata, fortemente invalidante, con grave danno cerebrale a prognosi infausta. Questo è tutto ciò che si sa, tant’è vero che gli stessi medici che lo hanno in cura non sono stati in grado di formulare una diagnosi precisa, limitandosi a parlare genericamente della “malattia di Alfie”. Ciò che è sicuro è che il male gli sarà letale e qui sta il punto di tutta la vicenda che ha visto schierarsi su fronti opposti l’ospedale in cui è ricoverato (l’Alder Hey Children’s) e il giudice dell’Alta Corte di Londra, Anthony Paul Hayden, da un lato, e i genitori, dall’altro. Perché che respirazione, alimentazione e idratazione che sostengono le funzioni vitali del bambino non siano un trattamento futile o dannoso, è pacifico; che il bambino non sia in uno stato vegetativo, è lampante; ma allora la questione diventa se la vita di Alfie va accompagnata fino alla fine anche se inguaribile oppure no. Il giudice Hayden ha deciso di no, spingendosi a rimproverare i genitori per la loro battaglia in sua difesa.
Il fatto curioso, o inquietante, di questa storia è che lo stesso giudice Hayden, ad un certo punto, era arrivato a riconoscere che quella stessa vita ha “una dignità”. Dopo aver ascoltato il parere del rappresentante dell’Alder, Michael Mylonas, che spingeva per staccare i sostegni vitali, e dopo aver raccolto la convinzione opposta del dottor Nikolaus Haas (“sospendere i trattamenti lo porterà immediatamente alla morte e questo non può certamente essere il suo miglior interesse”), Hayden si era recato in ospedale per sincerarsi personalmente delle condizioni del piccolo. E qui si era reso conto che non solo il bambino era trattato con le migliori cure, ma che era circondato da persone amorevoli, come lui stesso riconobbe: “L’atmosfera intorno ad Alfie era di pace e dignità, e, so che si potrebbe trovare sorprendente che io lo dica, molto felice. Il motore principale per tutto questo è la mamma di Alfie. Il mio giudizio è che la sua vita ha vera dignità”. E, infine, concludeva: “La domanda molto più difficile è se, e se così, come possa essere mantenuta”. La risposta a questo dubbio, il giudice l’ha data con la sua sentenza, sebbene i genitori non chiedessero né a lui né ai dottori di salvare il figlio, ma solo la possibilità di accompagnarlo verso un destino ormai segnato.
Soprattutto, Hayden e l’Alder Hey Hospital hanno scelto di non fare i conti con un fatto – e non un’opinione – che si è presentato loro davanti e che, in un certo senso, avrebbe offerto loro la scappatoia per una decisione non traumatica. E cioè la disponibilità da parte dell’ospedale Bambin Gesù di Roma e dell’Istituto Besta di Milano di prendersi cura del malato. C’è forse una cosa più terribile del decidere per sentenza della vita altrui, del preferire – in un caso controverso – di credere solo a certi esperti piuttosto che ad altri, del misurare una vita secondo il parametro scivoloso della “qualità”. Ed è il fatto di non aver voluto accordare ai genitori di Alfie e ai medici italiani la possibilità di sacrificarsi per un inguaribile. Per loro, “inguaribile” non ha mai significato “incurabile”.