C'è un'ultima speranza di salvare Alfie dai suoi carnefici
I genitori presentano ricorso contro il divieto di trasferire il piccolo a Roma. Oggi la decisione. Enoc (Bambino Gesù): “Credo che la scelta non sia stata tecnica. È un attacco al nostro ospedale, che appartiene al Vaticano”
Ancora qualche ora. La battaglia per salvare il piccolo Alfie Evans ormai si gioca sul terreno del tempo. Guadagnare ore sperando che il bambino non muoia e che, prima o poi, venga permesso ai genitori di fare ciò che chiedono dal primo giorno: offrire al figlio di 23 mesi, affetto da una grave malattia neurodegenerativa, la possibilità di essere curato. Se non a Liverpool, dove giudici e medici hanno già emesso la loro sentenza di condanna a morte, in Italia dove il Bambino Gesù è invece pronto ad accogliere il piccolo.
Una decisione nel merito dovrebbe essere presa oggi. Tom e Kate Evans hanno infatti presentato un ricorso contro il divieto di trasferire Alfie a Roma. Secondo la Bbc l'udienza è fissata per questo pomeriggio. Nel frattempo i genitori hanno fatto sapere che il bimbo continua a lottare per la vita e che per aiutarlo devono fargli la respirazione bocca a bocca.
Le speranze che i giudici inglesi concedano il trasferimento, però, sono veramente ridotte. Intervistata dal Corriere della sera, il presidente del Bambino Gesù, Mariella Enoc, ha confessato tutta la sua delusione per ciò che sta accadendo: “Non mi facevo illusioni eppure non immaginavo si sarebbero messi contro di noi in maniera così aperta. Credo sia il risultato di una battaglia ideologica e che la scelta non sia stata tecnica. Hanno ingannato la famiglia. Lo vedo come un attacco al nostro ospedale, che appartiene al Vaticano. Magari se fosse stato il Gaslini di Genova, che si è offerto in ritardo, avrebbero detto di sì. Sarei felice se lo mandassero ovunque, purché non muoia in quell’ospedale. Ho visto attorno ai genitori troppi movimenti non utili al bambino”.
L'appello del Centro Studi Livatino. In una nota il Centro Studi Livatino ha rivolto un appello al governo affinché la scelta di concedere la cittadinanza italiana ad Alfie, “un gesto di coraggio e di civiltà”, “non resti un pur importante passo politico, producendo le auspicate ricadute giuridiche”.
“I dati certi della vicenda - sottolinea il Centro - sono che: nei confronti di Alfie i genitori non invocano alcun “overtreatment” (o, come si dice impropriamente, accanimento terapeutico), bensì il mantenimento vitale attraverso supporti tecnici. Ciò accade ovunque vi sia un disabile grave, che non può essere ucciso o lasciato morire solo perché disabile e solo perché rappresenta un costo per il sistema sanitario; se il Regno Unito non intende garantire tale mantenimento, Alfie – attraverso i suoi genitori – ha il diritto di recarsi altrove, e in particolare nello Stato di cui è diventato cittadino per fruire del trattamento. Lo tutelano in tal senso gli articoli 2 della Convenzione EDU, 56 del Trattato sul funzionamento dell’UE, 2 13 e 32 della Costituzione; né Alfie né i suoi genitori hanno commesso reati per i quali possa loro essere interdetta con atto del giudice alcuna libertà, e in particolare la libertà di circolazione”.
A tal proposito il Centro, che è formato da magistrati, docenti universitari e avvocati, ricorda “le norme sui poteri dell’autorità consolare italiana” che “permettono, in caso di pervicace diniego da parte dei giudici inglesi, di ricorrere con urgenza alla Corte di Giustizia europea: la cui pronuncia nel caso specifico potrebbe salvare la vita ad Alfie evitando diatribe diplomatiche fra Stati amici. Tutti gli italiani di buon senso vorrebbero estendere l’apprezzamento sincero manifestato sul punto verso il Governo italiano al raggiungimento dell’obiettivo di far vivere un bambino”.
Il precedente. Alcuni anni fa l'ospedale Alder Hey di Liverpool, lo stesso in cui è ricoverato Alfie, era stato al centro di uno scandalo denunciato dal British Medical Journal e anche da alcuni membri dello staff. Al centro della polemica l'applicazione del Liverpool Care Pathway (Lcp), il protocollo applicato negli ultimi giorni di vita ai pazienti terminali. Un protocollo che portava all'interruzione dell'alimentazione e dell'idratazione o a una sedazione che rendeva i pazienti incoscienti al punto che non chiedevano né cibo, né acqua. Ebbene, quel protocollo, secondo la denuncia, veniva applicato anche a bambini gravemente disabili. La cosa peggiore, denunciava all'epoca un medico, è che in molti casi dallo stop dell'idratazione alla morte trascorrevano mediamente fino a dieci giorni.