Non c'è solo il suicidio assistito
La narrazione della dolce morte può essere sconfitta. Un caso italiano
“Vivere è meglio che morire”. Dirlo è così ovvio, quasi banale. Lo è meno se a pronunciare questa frase, in un’intervista con il Corriere della sera, è Stefano Gheller, 45 anni, malato dalla nascita di distrofia facio-scapolo-omerale. Solo qualche mese fa Stefano aveva deciso di andare in Svizzera a morire. “Avevo già contattato la clinica Dignitas”, racconta. Era disperato, non ce la faceva più. Non accettava l’idea di ritrovarsi paralizzato e alimentato da una macchina. Poi, però, un suo sfogo raccolto dal Giornale di Vicenza ha cambiato tutto. Sono arrivati nuovi amici, inviti a pranzo, concerti. Qualcuno gli ha chiesto di trascorrere insieme il Natale. Non è cambiata la sua malattia. Quella c’è sempre e il decorso prosegue, inesorabile. E’ cambiato lo sguardo di Stefano sul mondo: “Se riesco a vivere con dignità, vivere è molto meglio che morire”. Parole che svelano il grande inganno dell’epoca della “dolce morte”.
Il problema, infatti, non è ingegnarsi per concedere a chiunque, magari per legge, una morte dignitosa. Ciò che serve a Stefano e a chi come lui deve affrontare la fatica della malattia non è qualcuno che gli dica che è meglio arrendersi prima che sia troppo tardi, che non c’è alternativa al suicidio assistito. Non è un movimento di politici e cittadini comuni che si batta per concedergli di poter avere l’eutanasia a portata di mano risparmiandogli un costoso viaggio in Svizzera. Al contrario serve qualcuno che gli faccia riscoprire il senso e la dignità della vita, che abbracci e accompagni. Nessuno forse lo ricorda, o magari lo omette volutamente, ma gli ospedali nacquero, in epoca cristiana, anzitutto per assistere, accogliere e sostenere chi soffriva. Non sempre infatti la medicina è in grado di curare. E allora serve uno sguardo più grande, serve la capacità di dare speranza. E’ l’unica possibilità che abbiamo. Altrimenti tanto vale morire.