Conversione all'islam o stupro. La scelta delle yazide nello Stato islamico
Roma. Nel giorno in cui si scopre che i migranti possono essere gettati in mare dai barconi salpati dalle coste della Libia solo perché cristiani (dodici, tra ghanesi e nigeriani, sono finiti tra i flutti del Mediterraneo per mano dei compagni musulmani in seguito a una violenta lite scoppiata a bordo), undici donne e nove ragazze yazide, riuscite a scappare dalle grinfie dei miliziani jihadisti del Daesh, hanno fatto conoscere al mondo il modus operandi del Califfo nelle regioni conquistate riguardo le minoranze che non si sottomettono. Ad allineare le testimonianze, l’una dopo l’altra, è Human Rights Watch. Dieci di loro hanno ammesso d’avere subito violenza sessuale, alcune più volte. Quasi tutte sono state costrette al matrimonio, magari dopo essere state vendute od offerte “in dono” a qualche vecchio sostenitore dell’orda nera islamista. Un medico locale, che per primo ha avuto modo di visitare le superstiti, ha messo nero su bianco l’esito della sua indagine: su centocinque donne visitate, settanta sono state abusate. Quel che hanno raccontato ha i degni contorni d’un film dell’orrore realizzato con le più sofisticate tecniche hollywoodiane: prima il rapimento, quindi la divisione da madri e padri e figli. Spesso, i parenti maschi venivano freddati davanti a loro o – nel migliore dei casi – gettati in qualche galera improvvisata, magari ricavata da antichi monasteri da cui nel frattempo erano stati sfrattati gli storici e legittimi inquilini.
Alcune giovani hanno tentato il suicidio per evitare la violenza, il matrimonio o la conversione forzata all’islam. Zara, tredici anni, racconta che “quando sono arrivati qua, ci hanno fatto convertire all’islam e ci hanno costrette a ripetere il credo islamico. Ci dicevano: ‘Voi yazidi siete infedeli, e dovete dire queste parole’. Ci hanno fatto leggere il Corano e obbligato a pregare lentamente”. Nonostante le minacce quotidiane, c’è chi di abbandonare l’Iraq non ha alcuna intenzione. “La gente ha bisogno di sentire che la chiesa rimane loro vicina”, ha detto alla Catholic News Agency suor Suhama: “Il nostro lavoro è stare con il nostro popolo. Non credo che accadrà, ma se dovesse arrivare il giorno in cui gli ultimi cristiani dovranno abbandonare l’Iraq, noi preti e suore saremo gli ultimi ad andarcene”. Randi, un seminarista cresciuto nella piana di Ninive e ora ospitato nel seminario di Erbil, in Kurdistan, spiega che “lo Stato islamico ha rafforzato la nostra vocazione. Dio si prende cura di noi. Il nostro gregge potrà essere in futuro ancora più piccolo, ma noi cristiani abbiamo ancora un importante lavoro da fare qui. Dobbiamo ricostruire il nostro paese”.
[**Video_box_2**]Intanto, il martirologio cristiano continua ad aggiornarsi: Nauman Masih, il quattordicenne pachistano bruciato qualche giorno fa da un gruppo di coetanei musulmani in Pakistan, è morto in ospedale. Aveva riportato ferite su più della metà del corpo. Scrive l’agenzia Fides che “era stato fermato e aggredito dopo aver dichiarato di essere cristiano. I giovani lo hanno cosparso di benzina”. Il direttore del Peace Center di Lahore, padre James Channan, osserva che “siamo nel periodo storico peggiore per la vita dei cristiani in Pakistan. Discriminazione, sofferenza, oppressione spesso diventano vera persecuzione. Oggi chiediamo al governo dov’è la giustizia, dove sono i colpevoli dei tanti episodi di violenza gratuita commessa sui cristiani”.
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