Falce e martello, il Vaticano contestualizza perfino Cristo in croce
Roma. L’astuta performance messa in piedi da Evo Morales si sarebbe potuta chiudere con il fermo immagine della perplessa espressione del Pontefice nel comprendere che quel pezzo di legno che gli veniva donato dal demagogo boliviano era un Cristo appeso su una falce e un martello. Anche il fatto che Francesco si sia subito sbarazzato della catenina falcemartellata bastava per sottolineare la ovvia presa di distanza da quella studiata provocazione – arruolare il Papa come compagno della revolución ingolosisce assai i caudillos sudamericani à la Morales, la cui conoscenza dei fondamentali del cristianesimo li porta a commissionare murales in cui si vede Gesù con kalashnikov in spalla, combattente dalla parte dei più deboli, convinti che ciò sia evangelico.
Poi però, quando in Italia era tarda sera, è arrivata la precisazione del Vaticano, con il reverendo padre Federico Lombardi S.I. che si infilava nel più classico dei cul de sac, spiegando che: punto primo, il crocifisso ha una sua dignità perché disegnato da padre Luis Espinal, assassinato sotto la dittatura nel 1980; punto secondo, che il simbolo “non aveva intenzione di manifestare nulla di ideologico ma l’apertura del dialogo che allora si doveva vivere con tutte le persone che si impegnavano per cercare la libertà e la giustizia nei paese”; punto terzo, che quella discutibile opera d’arte “va vista nella sua origine, nel tempo in cui è nata”. Si tratta, insomma, di contestualizzare il tutto e di certo – aggiungeva il portavoce – una cosa così non si può appendere nelle chiese. La nuova massima, dunque, è che il trittico Cristo-falce-martello può essere simbolo di dialogo, e che soprattutto in quell’immagine non v’è nulla di ideologico (chissà che ne pensano i cristiani vissuti e morti per quarant’anni oltre la Cortina) .
[**Video_box_2**]Più che dichiarazioni pronunciate dalla santa cattolica e apostolica chiesa di Roma, parrebbe un sunto di qualche articolessa di Gianni Minà, laudatore sommo delle glorie del comunismo in salsa latinoamericana – anni fa inserì Morales e Chávez (al quale fu dedicata la preghiera “Chávez nostro che sei nei cieli”) nella lista dei “presidenti finalmente presentabili dell’America latina” e rimproverò la blogger Yoani Sánchez di parlar male di san Fidel. Oscar Romero, da poco beato e sovente tirato in ballo a sproposito quando si tratta di mischiare Cristo e marxismo con la scusa di star dalla parte dei poveri, aveva scritto decenni fa che “l’opzione preferenziale per i poveri non presupponeva una parzialità senza criterio a favore dei poveri e una sorta di disprezzo per le classi facoltose”. Anche perché, per Romero, i poveri erano tutto meno che un elemento della storia politica e non dovevano avere niente a che fare con le lotte ideologiche. Quelle lotte che ad esempio combatteva il prete Ernesto Cardenal, rampognato in mondovisione da Giovanni Paolo II sulla pista dell’aeroporto di Managua per essere divenuto ministro del governo rivoluzionario di Daniel Ortega – lì il Papa polacco non considerò il contesto locale, evidentemente. E basterebbe citare qualche martire cinese o vietnamita, cui veniva proibito persino di “pregare con le labbra e col cuore il Dio dei cristiani” (si leggano di diari dei sopravvissuti) per farsi un’idea su quanto sia gravida di giustizia e dialogo l’ideologia mascherata dietro quei due simboli.