“In Siria e Iraq è un genocidio”
Il vescovo caldeo di Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, mons. Bashar Warda, ha scelto la platea americana di Indianapolis per esortare l’occidente a chiamare le cose con il loro nome: quel che sta accadendo tra Siria e Iraq da più d’un anno, ha detto, “è un genocidio”. Non si tratta di un conflitto secondo i canoni tradizionali della guerra, ma di pulizia etnica. “Ci sono tutti gli elementi, gli eventi, le storie e le esperienze che soddisfano la definizione di genocidio. Riconoscere questo significherebbe non dimenticare queste persone, facendo sì che i loro sacrifici non siano scordati”. Si faccia in modo, ha chiosato Warda, “che non passino altri vent’anni prima che qualcuno guardi a ciò che è successo e chieda scusa per non aver fatto qualcosa di realmente decisivo”. Domenica scorsa, al Meeting di Rimini, era stato padre Douglas al Bazi – iracheno di Baghdad – a usare le medesime parole: genocidio, non conflitto. Termine che però stenta a far breccia nel lessico di routine della politica internazionale occidentale, che ha impiegato due decenni prima di ammettere che nel ’95 a Srebrenica le sparizioni sistematiche di tutti gli uomini musulmani bosniaci della città a opera delle truppe di Ratko Mladic non erano dovute a viaggi improvvisati all’estero. I video, poi, spiegarono meglio di ogni risoluzione onusiana l’esatta portata del massacro.
Certo, a cent’anni di distanza si discute ancora se le deportazioni degli armeni in Anatolia possano essere considerate genocidio (la comunità internazionale pensa di sì, tranne la rabbiosa Turchia, che ne fa una questione d’onore), ma nel caso delle persecuzioni dello Stato islamico le reticenze e la prudenza dovrebbero essere abbandonate. C’è sempre chi pensa di poter sedersi attorno a un tavolo negoziale con Abu Bakr al Baghdadi o con qualche suo luogotenente, ma discettare di terminologie conformi o meno al diritto internazionale con chi passa le giornate a sgozzare vecchi, a gettare dai tetti gli omosessuali, a bruciare vivi soldati giordani, a demolire tombe cristiane e a far saltare in aria antiche rovine ree d’essere pagane, non pare opportuno. I fatti e le evidenze di cui parla il vescovo di Erbil sono sotto gli occhi di tutti: bastava, come antifona, la “n” di nazareno pitturata sulle case degli infedeli da epurare. Il coltellaccio del boia jihadista avrebbe dovuto, poi, confermare a tutti il sospetto.
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