Relatio sinodale ambigua: “E' come al Concilio”
Roma. L’unica certezza riguardo l’accostamento dei divorziati risposati alla comunione, magna quaestio del Sinodo chiuso solennemente domenica in San Pietro, è che alla fine deciderà il Papa, come era chiaro fin dall’inizio del percorso biennale sinodale e come diversi padri avevano anticipato la scorsa settimana dinanzi all’impasse dovuta all’accalorato confronto su sacramenti e famiglia andato in scena nell’Aula nuova. A due giorni dalla pubblicazione del documento finale, ancora si dibatte su quale sia la linea emersa. Cardinali di solido orientamento conservatore giurano d’aver approvato senza battere ciglio il trittico di paragrafi centrati sul discernimento, cuore della proposta concepita da Christoph Schönborn.
Se letti bene e senza “precomprensioni o passioni”, dicono dal fronte opposto a quello novatore, quelle frasi non fanno altro che riproporre (approfondendolo) l’insegnamento precedente, che è quello messo nero su bianco da Giovanni Paolo II con la Familiaris consortio del 1981. Il punto, semmai, è farlo capire ai sacerdoti, s’aggiunge, che in molti casi già confessano, assolvono e consentono ai divorziati risposati di accostarsi al sacramento. Anche tra i padri d’orientamento più aperturista non tutti la vedono allo stesso modo: Walter Kasper sostiene che ora si potrà concedere la comunione ai divorziati risposati, mentre il cardinale arcivescovo di Washington, Donald Wuerl (primo referente negli Stati Uniti di Francesco e favorevole a un aggiornamento della pastorale, scontrandosi sui giornali con il connazionale Charles Chaput) ha tagliato corto sottolineando che “non c’è alcuna nuova raccomandazione” sul tema dell’eucaristia. Poi c’è mons. Bruno Forte che dice che la comunione si potrà dare “in alcuni casi, ma soltanto in alcuni casi” e il cardinale Vincent Nichols che spiega che “nessuno intraprenderà il percorso (penitenziale, ndr) con l’obiettivo unico di fare la comunione ma, allo stesso tempo, nessuno sarà accompagnato lungo questa strada secondo il principio che non potranno farlo”.
[**Video_box_2**]E’ questo il punto centrale, che ha diviso anche i media. Se per la stampa italiana il Sinodo ha aperto porte e portoni a tutti in base al principio che la chiesa non può condannare nessuno e che la misericordia vince sempre, basta andare fuori dai confini per leggere che quello approvato è un “testo che rende possibile ogni interpretazione” (New York Times), che “il Papa ha fallito nel conquistare il sostegno dei vescovi circa l’approccio a divorziati e omosessuali” (Wall Street Journal). Padre Thomas Reese, l’ex direttore di America, la rivista liberal dei gesuiti d’oltreoceano, ha scritto che la parola “comunione non è stata menzionata nel testo perché questa era l’unica strada per far sì che i paragrafi potessero ottenere la maggioranza dei due terzi. Come al Vaticano II, il Sinodo ha ottenuto il consenso attraverso l’ambiguità e questo significa che i padri hanno lasciato il Papa libero di fare ciò che egli riterrà essere la cosa migliore”. Ecco perché il Figaro scrive che il vero vincitore della partita è Francesco, che ora – per dirla con il Preposito gesuita padre Adolfo Nicolás – “ha le mani libere” per andare anche oltre la prudente relazione finale che l’assemblea ha approvato. Un testo che rimane lontano dall’originaria “proposta Kasper” sostenuta dalla Conferenza episcopale tedesca, che fino all’ultima settimana di lavoro in Aula ha spinto per una apertura più netta e generalizzata riguardo le persone che si trovano in una situazione “irregolare”, capendo però che mai avrebbe potuto ottenere su quelle basi i due terzi di “placet” richiesti. Da qui il compromesso studiato da Schönborn, che lo stesso cardinale George Pell, l’ideatore della celebre lettera di protesta inviata al Pontefice il rpimo giorno del Sinodo, ha definito accettabile.
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