Il “no” che impoverisce la chiesa di Francesco
No alla ricchezza”, ha tuonato domenica il Papa celebrando la messa a Ecatepec, enorme sobborgo di Città del Messico dove – si diceva su Tv2000, il canale della Cei – si registra il più alto tasso di furti “violenti” a danno dei residenti. Niente di nuovo, nell’oratoria bergogliana: un appello del genere il Pontefice lo ha già ripetuto, più o meno usando gli stessi sostantivi, in Ecuador e Bolivia, in Paraguay e negli Stati Uniti. E’ la prima delle tre tentazioni da cui fuggire (le altre sono vanità e orgoglio) per essere considerati buoni cristiani, un caposaldo del suo programma pontificale da tre anni in qua. Fa un po’ impressione che l’intemerata contro la ricchezza venga lanciata in un paese che tenta da qualche lustro – tra mille contraddizioni e difficoltà – di scrollarsi lo storico marchio di “cugino” povero della grande America con cui confina a nord, terra promessa in cui migliaia di messicani cercano ogni anno di entrare a rischio della loro stessa vita.
Non scappano dalla “ricchezza” così presente nell’arte omiletica di Francesco, bensì dalla grande povertà che spesso costringe famiglie intere a finire inghiottite nel giro delle bande criminali che sopravvivono con le rendite del narcotraffico. Il Papa l’ha visto bene ieri, visitando il penitenziario di Ciudad Juárez, la città di un milione di abitanti che ha uno dei più alti tassi di omicidi al mondo, nonché di pandillas, le gang che ne controllano le strade (ne sono state censite 950). Terra di confine che separa il Messico dagli Stati Uniti, chilometri di deserto che dividono – biblicamente parlando – l’inferno dal paradiso, la povertà dal benessere. Che non è certo un peccato, neanche per la chiesa.
Editoriali
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