Caro Papa, la Siria non si salva da sola
Il Papa, parlando della situazione in Siria, al termine dell’udienza generale del mercoledì ha rinnovato “l’appello a impegnarsi con tutte le forze nella protezione dei civili, quale obbligo imperativo e urgente”, con la chiosa drammatica secondo cui “i responsabili dei bombardamenti renderanno conto a Dio”. Francesco si riferiva ad Aleppo, ma il problema travalica i confini della seconda città siriana ed è più generale. Se è comprensibile la speranza affinché il maggior numero di vite umane sia sottratto alla morte in guerra, è altrettanto difficile capire, data la situazione sul terreno, come le due cose possano essere conciliabili. Vista la drammatica crisi che sta comportando la morte di migliaia di siriani, non pare esserci altra soluzione se non un intervento in armi (con i Caschi blu dispiegati sul terreno) per far cessare le ostilità.
Si tratta probabilmente di utopia, considerate le posizioni di Washington e Mosca e i tanti interessi in gioco. Una guerra giusta sarebbe qui applicabile, considerate anche le parole di Francesco secondo il quale “è lecito fermare l’aggressore ingiusto”. Una via d’uscita, ed è la linea che il segretario di stato Pietro Parolin ha riproposto qualche giorno fa all’Onu, è l’applicazione della “responsabilità di proteggere”, il principio che implica anche lo strumento bellico. Lo enunciò Benedetto XVI intervenendo all’Assemblea generale del Palazzo di vetro nel 2008, quando osservò che se gli stati non sono in grado di proteggere le proprie popolazioni dalla violazione dei diritti umani, “la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali”.
Editoriali
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