Il primo commento che, a caldo, si potrebbe fare dopo aver letto e ascoltato il lungo discorso del Papa al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, è se questo importantissimo appuntamento d’inizio anno – è uno degli interventi più attesi – abbia ancora un senso. Francesco ha passato in rassegna crisi grandi e piccole che hanno interessato (o interessano tuttora) varie parti del mondo, dall’America latina all’Africa – deprecando gli “episodi di violenza contro persone innocenti, tra cui tanti cristiani perseguitati e uccisi per la loro fedeltà al Vangelo” – fino all’Europa in crisi d’identità – “Non perda quello spirito che affonda le sue radici, tra l’altro, nella pietas romana e nella caritas cristiana, che ben descrivono l’animo dei popoli europei”. Spazio anche al vicino e medio oriente, con il richiamo a Stati Uniti e Iran “all’autocontrollo” dopo l’eliminazione del generale Qassem Suleimani e la risposta di Teheran. Tutto come da copione e tradizione. Il problema è che Francesco non ha citato, nella sua analisi, la Cina né Hong Kong, e con tutto quello che è accaduto lì – tra rivolte, minacce, studenti rifugiatisi nelle università – nell’ultimo anno di cose da dire ne avrebbe avute parecchie. Invece, silenzio assoluto. Come se sul mappamondo vaticano al posto del grande paese asiatico ci fosse un buco. Perché passare dall’Iran al Giappone ed evitare a piè pari Pechino è un fatto non da poco. Nessun accenno, neanche sullo stato dell’accordo – ancora segreto – con la Cina siglato più di un anno fa relativo alla nomina dei vescovi. Si dirà che la questione è troppo delicata per essere affrontata, che il rischio che tutto vada all’aria è alto – il che però confermerebbe solo che il dominus del rapporto è Xi Jinping, con i suoi ricatti religiosi e politici – ma se l’annuale punto geopolitico della Santa Sede deve tenere conto della realpolitik e del pericolo di offendere i maggiorenti del Politburo cinese, è forse sufficiente fermarsi al consueto messaggio natalizio di auguri al mondo.
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