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Rimasugli del Sinodo sulla sinodalità di Papa Francesco

Matteo Matzuzzi

Avrebbe dovuto essere la grande eredità del pontificato bergogliano, è passato senza che alcun sommovimento tellurico agitasse la base fedele. L’assemblea voluta da Bergoglio s’è chiusa tornando ai princìpi d’inizio pontificato

Che al Sinodo sulla sinodalità il Papa ci tenesse lo dimostra il fatto che ha rinunciato a scrivere un’esortazione post sinodale, decidendo di far pubblicare immediatamente il Documento finale. Come a dire che i 155 paragrafi votati in assemblea rappresentano la posizione ufficiale, che è anche la sua. “Alla luce di quanto emerso dal cammino sinodale, ci sono e ci saranno decisioni da prendere”, ha chiarito nel suo discorso a conclusione dell’evento. Tre anni di lavoro e consultazioni, di approfondimento e preghiera che dovrebbero aver delineato il futuro della Chiesa; una Chiesa missionaria che va in periferia – ogni periferia, anche quella delle metropoli europee – e che porta la lieta notizia. Non tutti sono contenti, è sufficiente compulsare qualche sito internet o qualche blog: il fronte riformista s’attendeva molto di più e l’assicurazione che – ad esempio – il discorso sulle donne diacono resta aperto non calma gli spiriti insoddisfatti.

 

L’ha ammesso anche il presidente della Conferenza episcopale tedesca, quel mons. Georg Bätzing che tempo fa si diceva “deluso” dalle critiche del Papa al Cammino sinodale di Germania, evento che si riprometteva di sovvertire gerarchie e consuetudini, prassi e dottrine, arrivando anche a equiparare di fatto laici e vescovi in un Consiglio che ha portato Francesco in persona a domandarsi e a domandare se la Conferenza episcopale tedesca sia ancora cattolica. Il cardinale Walter Kasper, che certo conservatore non è, da tempo aveva fatto suonare tutte le sirene d’allarme a sua disposizione, tirando in ballo proprio il dubbio sulla cattolicità dei disegni immaginati in riva al Reno. Ma anche il fronte degli oppositori al Sinodo non ha gradito certi passaggi sul ruolo delle donne nella Chiesa, sui laici chiamati a posizioni di comando, ai concili locali da convocare periodicamente. Per restare in Germania, il vescovo di Passau, mons. Stefan Oster, uno dei pochi ratzingeriani rimasti in sella a una diocesi tedesca, ha detto che quel che più gli è piaciuto del Sinodo è la conferma che a decidere le cose che contano saranno i vescovi. Insomma, ciascuno nei 155 paragrafi può dirsi soddisfatto per qualcosa, lasciando da parte dubbi e perplessità e facendo così in modo che vi sia un unanime consenso circa quanto uscito dagli anni di strenuo lavorio. 

 

Laicato, donne, ministeri, concili, ruolo dei vescovi: davvero la missione si rilancia con riforme studiate a tavolino su questioni del genere? Nelle quattro settimane d’ottobre, sul Sinodo ha dominato il silenzio. Un solo momento ha destato scompiglio, con accuse di scarsa trasparenza mosse da qualche padre sinodale al prefetto della Dottrina della fede Fernández. Motivo: il diaconato femminile. E’ su questo punto, e solo su questo, che è stata tirata la corda, in un crescendo di tensione con audio di riunioni finiti online e articoli su siti specializzati in cui s’arrivava ad auspicare l’avvento d’un nuovo Papa che potesse aggirare il “no” di Francesco a portare le donne sull’altare vestendole con il camicione bianco. In ogni briefing quotidiano, non mancava mai la domanda sulle diaconesse, quasi fosse la ragione primaria della convocazione di un Sinodo triennale. E si battagliava per far sì che una riga, foss’anche mezza, nel documento finale certificasse che la faccenda non era affatto chiusa e che quell’obiettivo sarebbe rimasto all’ordine del giorno. Nonostante il Papa avesse preventivamente tolto dal tavolo sinodale tutti gli argomenti più delicati, quelli su cui l’intesa non sarebbe mai stata trovata: complicato era e complicato resta mettere insieme gli orientamenti e le idee delle Chiese europee e latinoamericane con quelli delle Chiese africane e in parte asiatiche. Il poliedro, dopotutto, non ha le facce uguali l’una all’altra e ogni faccia è legittimata a far sentire la propria voce e a far conoscere la propria struttura. Basti solo considerare che non v’è, nel testo finale, alcun riferimento all’accompagnamento delle persone lgbtq+, nonostante il battage mediatico su tale aspetto fosse forte e i cuoricini arcobaleno esibiti sui social da padre James Martin.

 

Quel che resta di tutto questo grande Sinodo è una domanda di fondo: servirà a ridare slancio alla Chiesa? Dopo undici anni di pontificato bergogliano, il Papa auspica “non una Chiesa seduta” ma “una Chiesa in piedi. Non una Chiesa muta, una Chiesa che raccoglie il grido dell’umanità. Non una Chiesa cieca, ma una Chiesa illuminata da Cristo che porta la luce del Vangelo agli altri. Non una Chiesa statica, una Chiesa missionaria, che cammina con il Signore lungo le strade del mondo”. C’è come la sensazione che dopo un lungo e tortuoso peregrinare nelle periferie e nei reparti dell’ospedale da campo, si sia tornati al 2013, anno primo del pontificato, quando Francesco nel suo programma, l’Evangelii gaudium, metteva la Barca in mezzo al mare, senza una rotta prefissata. All’epoca si disse che la Chiesa doveva essere viva e dinamica, non un museo. Oggi si ripetono le medesime frasi.

 

Il vento impetuoso della primavera che qualche cardinale vagheggiava il giorno dopo l’elezione di Jorge Mario Bergoglio, non è arrivato: la fede ha continuato a crescere laddove già cresceva e ha proseguito nel suo declino laddove già declinava, certamente da ben prima dell’avvento del Papa preso agli estremi confini della Terra. L’ammiccamento al mondo, tra “chi sono io per giudicare?”, note a piè di pagina di esortazioni, dando un placet alle istanze rivoluzionarie della Chiesa tedesca, cosa ha prodotto? Che il Papa va in Belgio e viene messo sotto processo da quel mondo che gli avevano fatto credere d’aver conquistato. Con l’università di Lovanio, quella cattolica di nome e chissà quanto di fatto, che lo tratta come un Ratzinger qualunque, cioè come quello ch’era percepito essere l’integerrimo conservatore contrario a ogni deriva minima che intaccasse la prassi pastorale vigente. L’oscurantista antiabortista e dogmatico. Francesco ha chiamato a Roma la Chiesa affinché proclamasse solennemente il proprio pentimento per gli abusi, dimostrando ed esibendo una vergogna pubblica e sincera. Un gesto coraggioso che mai nessuno, prima, aveva fatto. Il risultato? Che mentre lui e i vescovi chiedevano scusa, dall’altra parte delle transenne in piazza San Pietro s’organizzavano manifestazioni ove s’invocavano manette e cappi per i prelati. 

 

Il Sinodo sulla sinodalità aveva l’obiettivo di coinvolgere il Popolo di Dio, quello infallibile in credendo. Farlo partecipe della svolta missionaria. Anche per questo era stato strutturato in fasi, favorendo la base, sperando che la scintilla scoccasse da lì, tra i cattolici insonnoliti e presi dalle solite routine. Poco s’è mosso, pochi hanno risposto ai questionari e ai sondaggi, alle ricerche e alle inchieste. Ed è arduo pensare che l’urgenza di quel Popolo che spesso non ha più neanche la messa domenicale nella propria parrocchia sia il sigillo papale al diaconato femminile. Alla fine, come si può constatare leggendo i commenti – tra l’arrabbiato e il frustrato – della schiera intellò che più attendeva il Sinodo bramando movimenti tellurici, rivoluzioni e svolte radicali, tutto s’è ridotto al solito conciliabolo fra gli eletti del nutrito club convocato in Vaticano. Certo, con più gioia e spensieratezza rispetto al passato: i vescovi potevano vestirsi casual, c’erano le madri sinodali e gli ospiti della categoria “redenti”, come Luca Casarini.

 

C’erano le app e i social (non la mascotte), ma insomma: alla fine è andata che quel che accadeva lì dentro veniva distillato al mondo tramite curatissimi – ma ovviamente controllati – briefing per i media. Senza quello scambio di vedute anche infuocato che si ebbe fino al Sinodo sulla famiglia del 2014-2015, assai movimentato e a tratti perfino thrilling. Il punto fondamentale è che ci si era illusi – o meglio, una parte del cattolicesimo colto s’era illuso – che davvero quel Popolo di Dio non attendesse altro che una chiamata alla partecipazione per dare slancio a una Chiesa in crisi. Ha scritto su Repubblica Enzo Bianchi che “purtroppo non ho visto un’intensa preghiera per il Sinodo come si era avuta alla vigilia del concilio Vaticano II. Certamente, i tempi sono cambiati, ma allora l’evento era capace di suscitare speranza, mentre il Sinodo di oggi sembra un evento di routine, non ciò che ha voluto Papa Francesco. Se le acquisizioni formulate verbalmente dal Sinodo o anche dal Papa non si traducono in procedure giuridiche che riformano l’attuale ordinamento canonico allora risuoneranno come semplici auguri”. Ma Bianchi sa che già prima del Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII l’attesa del Popolo era febbrile, negli anni finali di Pio XII s’avvertiva la necessità di qualcosa di nuovo. La Chiesa delle immense adunate, quella del popolo che tanto impressionò Pier Paolo Pasolini, al tramonto della Cristianità, attendeva l’inizio del Concilio. 

 

Ma oggi? Il Sinodo sulla sinodalità, che nei piani avrebbe dovuto essere la grande eredità del pontificato bergogliano (e potrà, nonostante tutto, ancora esserlo), è passato senza che alcun sommovimento tellurico agitasse la base fedele. Il documento finale è lì, diffuso a tutti per volontà del Papa, magna carta su cui lavorare e intessere l’azione del domani: ma a soli tre, quattro giorni di distanza dall’atto conclusivo, si parla più della mascotte giubilare con il suo impermeabile giallo che del testo che avrebbe dovuto ridefinire le priorità della Chiesa e orientarne la rotta nei marosi dei tempi correnti. Le premesse, desiderate da un non indifferente numero di Chiese particolari, era di fare a Roma un piccolo Vaticano III, per recuperare il ritardo sulla Storia di duecento anni così definito da Carlo Maria Martini. Dietro la parola “sinodalità” si celava un paniere di richieste e istanze diverse da un luogo all’altro del pianeta. Tutto era ed è divenuto sinodalità. Anche nelle diocesi, i vescovi nelle loro Lettere pastorali infilano la “sinodalità” qua e là adeguandola a ogni contesto possibile, alla stregua di un termine jolly da usare quando risulta opportuno.

 

Ma, ha scritto sul National Catholic Reporter Thomas Reese, “la sinodalità, fatta bene, richiederà molto tempo. Oscar Wilde disse che il problema con il socialismo è che sacrifica troppe serate. Lo stesso vale per la sinodalità nella Chiesa: ci vuole impegno e tempo. Ma se l’obiettivo della sinodalità è coinvolgere l’intera Chiesa nella promozione della missione di Gesù, quale modo migliore per trascorrere il tempo? L’alternativa è la continuazione del clericalismo e del paternalismo”. S’insiste sul laicato, si parla del coinvolgimento di uomini e donne non ordinati portandoli a posti di guida delle comunità in nome, appunto, della lotta al clericalismo. Ma dov’è, nell’Anno del Signore 2024, questo laicato? Dove li vedono, i padri sinodali, tutte queste schiere di laici attivissimi pronti a dare nuova linfa alla Chiesa che soffrono terribilmente il potere esercitato dai consacrati? Restando a una prospettiva occidentale, la pratica domenicale è ridotta a cifre irrisorie e gli incrollabili partecipanti alle messe hanno un’età media che di certo non permette di contare su un’energica collaborazione né su idee nuove. Il laicato “protagonista” consisterà nel far parlare un po’ di più nei consigli parrocchiali il sacrestano, la capo coro e il responsabile delle letture domenicali? Perché al di là dei grandi e positivi auspici, il rischio concreto, nella semplice realtà dei paesi e delle parrocchie della vecchia e cattolica Europa è questo. 

 

I 155 paragrafi del Documento finale trattano i temi più disparati, come peraltro indicava già l’Instrumentum laboris, ma solo un paio d’accenni sono riservati alla persecuzione dei cristiani, drammatica proprio laddove la fede è più giovane e vivace. Solo qualche giorno fa, Aiuto alla Chiesa che soffre ha presentato il rapporto che descrive la barbarie in Nigeria e in Nicaragua, in Pakistan e in India, perfino in Cina. Forse, tra una battaglia sul diaconato femminile e una doglianza sull’assenza di riferimenti alle questioni gender, qualche paragrafo in più destinato ai martiri di oggi “che sono più dei primi secoli”, come tante volte ha ricordato Francesco, e che sono perseguitati solo in nome della loro fede non nascosta, non avrebbe guastato.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.