Banchieri italiani per una Bce interventista

Redazione

Al Foglio parlano Massiah (Ubi Banca) e Doris (Mediolanum)

    Victor Massiah, consigliere delegato di Ubi Banca, il quarto istituto di credito italiano per capitalizzazione, intervistato da Michele Arnese sabato sul Foglio:

    "Oggi – aggiunge Massiah – il problema degli istituti, e che si riflette sulle imprese, non è il capitale bensì la liquidità”. Per questo, “una soluzione tipo fondo Tarp creato in America dopo il crac Lehman potrebbe essere una buona idea, ma potrebbe avere solo natura emergenziale, temporanea”. Ma è sulla Bce che si dirigono le attenzioni del banchiere che dal primo dicembre 2008 è alla guida di Ubi Banca. Beninteso, nessuna richiesta di sostegno o salvataggio occulto dell'Italia e del suo debito: “A differenza di Grecia, Spagna o Portogallo il nostro paese può contare su punti di forza come un deficit pubblico fra i migliori, una ricchezza privata pari quattro volte al debito, un sistema industriale che resta il secondo in Europa dopo quello tedesco, ma abbiamo anche un punto di debolezza: lo stock di debito pubblico. Sul quale dobbiamo andare a incidere subito, in modo credibile e pesante”. Un invito al governo Monti, in cui il banchiere nutre fiducia.
    Detto questo, Massiah nota una sorta di concorrenza sleale fra Banche centrali, con la Fed americana e la Boe inglese – pragmatiche, interventiste e garanti di banche e moneta – e una Bce che per statuto e mandato politico ha le mani legate: “L'Istituto di Francoforte deve diventare una banca centrale a tutto tondo. Perché questo accada c'è bisogno però che l'Europa avvii il processo di unione politica e fiscale, come ha dichiarato anche oggi (ieri, ndr) la cancelliera Merkel. In questo scenario la Bce potrà essere garante delle banche e degli stati”. Secondo Massiah, una Bce stile Fed deve essere prevista dalla revisione dei trattati per rassicurare la Germania che il coordinamento fiscale garantirà i paesi virtuosi e che non saranno loro a pagare per le economie deboli.

    Ennio Doris, presidente di Banca Mediolanum Spa, intervistato da Stefano Cingolani questa settimana sul Foglio:

    "Scoppiata la crisi, la Federal Reserve ha speso 2.000 miliardi di dollari per acquistare titoli a 5-10 anni, facendo scendere i tassi al 2 per cento. E gli Stati Uniti sono ripartiti”. A un passo molto lento. “E' vero, ma la colpa è dell'Unione europea. Qui c'è il mercato più grande del mondo, più ricco di quello cinese e più ampio di quello americano. E la Ue ha risposto in modo scoordinato, impedendo alla Banca centrale di svolgere lo stesso ruolo”. Il trattato inibisce alla Bce di fare il prestatore di ultima istanza per i governi. “Certo, però acquista già sul mercato secondario e anche questa è una operazione straordinaria. Insomma, si può seguire una politica monetaria più aggressiva e interventista senza violare le regole. Ecco perché sostengo che la radice della crisi oggi non sta ad Atene, a Madrid o a Roma, ma a Bruxelles.
    Vuole un'altra prova? Prendiamo Francia e Stati Uniti: come mai Washington ha più deficit, più debito eppure paga meno interessi? Se confronta Gran Bretagna e Germania trova la stessa relazione. La spiegazione è che manca nella zona euro un prestatore di ultima istanza. Se la Bce dicesse che è disposta a mantenere i tassi sui titoli sotto il 5 per cento basterebbe il solo annuncio per bloccare la speculazione al rialzo. Come ha fatto la Svizzera: ha annunciato la difesa del franco a quota 1,20 e ha raggiunto l'obiettivo senza spendere nulla”.