Cosa c'è davvero dietro l'assalto a Fornero sugli esodati
Dietro la questione “esodati” non c'è una vicenda contabile, ma l'assalto a una riforma strutturale
di Edoardo Narduzzi
Twitter @EdoNarduzzi
Quando tra pochi mesi la stagione del governo tecnico si sarà conclusa, è assai probabile che la sola riforma delle pensioni resterà a qualificarne l'azione ai fini storici. Una riforma che si intreccia con il nome e la personalità della ministra che l'ha realizzata, Elsa Fornero. Ma, soprattutto, una riforma che ha innescato un muscolare confronto tra le parti sociali e l'esecutivo sul fronte dei cosiddetti esodati, categoria inizialmente relativamente precisa ma diventata poi onnivora di posizioni previdenziali spurie. L'Italia doveva fare la riforma pensionistica estendendo il metodo della capitalizzazione della riforma Dini a tutta la platea degli aventi diritto e allungando in avanti l'età pensionabile. Era scritto nei numeri della finanza pubblica da almeno un decennio, prima ancora che nell'andamento dello spread e nella lettera della Banca centrale europea recapitata a Roma la scorsa estate. Per questa ragione sorprese lo scorso dicembre non ce ne sono state, tranne quella della situazione congiunturale nella quale la riforma pensionistica è stata varata: i sindacati sono stati costretti a prenderla senza poter negoziare quasi nulla data la insostenibile situazione del debito pubblico. Un golpe rispetto alla tradizione concertativa italiana? Sicuramente una decisione originale per la storia del nostro paese, una decisione con la quale il policy maker – nel volto della ministra Fornero – si è assunto tutte le responsabilità dell'eccezionalità storica procedendo quasi unilateralmente per mettere in sicurezza il risparmio, la competitività, le generazioni future. Un gesto da veri statisti, capaci di guardare all'interesse generale come bene primario.
Ogni riforma strutturale lascia le sue cicatrici e nel caso di quella delle pensioni il campo di battaglia ha assunto la fisionomia dei cosiddetti esodati. Quando una riforma è annunciata da tempo in un'economia dal mercato del lavoro duale, poco flessibile per la componente più anziana del suo segmento, imprese e lavoratori tendono a massimizzare la propria utilità se possibile. A sterilizzare il più possibile, anticipandoli, gli effetti della riforma, così le imprese possono scaricare parte dei costi fissi sulla fiscalità generale e i lavoratori acquisire una pensione anticipata con il metodo a ripartizione. Aggiungici che la congiuntura recessiva ha costretto molte imprese a politiche di contenimento dei costi per salvare almeno una parte della base produttiva e si capisce molto bene quanto è accaduto nel corso del 2011 nel mercato del lavoro italiano: gli accordi consensuali tra le imprese e i lavoratori prossimi alla pensione si sono moltiplicati. Migliaia di decisioni microeconomiche sono, con il varo della riforma, diventate un problema macro di finanza pubblica perché gli stessi lavoratori, incentivati economicamente a lasciare l'azienda, non avevano più il diritto alla pensione spostato in avanti nell'età dalla riforma Fornero. Lo zoccolo duro degli esodati è qui, tra coloro che, avendo definito un accordo consensuale di uscita dal lavoro prima della riforma delle pensioni, sono colpiti dall'allungamento dell'età pensionabile non avendo più i requisiti di legge per poterla richiedere. Si tratta di un'anomalia tutta italiana: due parti private, l'impresa e il lavoratore, si accordano al meglio per il rispettivo interesse e massimizzano la propria utilità, scaricando sulla fiscalità generale gli effetti non previsti del loro accordo. Il decreto Salva Italia quantificava in 65 mila il numero dei pensionandi nel limbo, cioè senza più un lavoro, che avrebbero acquisito entro il 31 dicembre 2011 i vecchi requisiti pensionistici. Come dire tutti coloro che avevano anticipato ragionevolmente l'uscita dal lavoro. Costo per i contribuenti: cinque miliardi.
Ma ai sindacati, non contenti della riforma pensionistica, questo intervento, già molto eccezionale, non bastava e non basta. Volevano e vogliono estendere il più possibile la coperta per attenuare l'effetto della riforma pensionistica: più alto è il numero degli esodati, minore la platea dei lavoratori colpiti dalla riforma. Per questa ragione è iniziato un terzomondista balletto delle cifre, sganciato dalla realtà di partenza, che ha finito per ampliare la platea dei soggetti interessati allargandola fino a 390 mila 200 casi e includendovi anche tutti coloro che lavorano in imprese con in corso procedure di mobilità o analoghe. Se l'impresa chiude alla fine della cassa integrazione o della mobilità non ci sarà un esodato in più, ma un disoccupato in più da gestire con gli strumenti tipici del caso. Il confronto tra la Fornero e i sindacati, però, va ben oltre la contabilità degli esodati perché serve a stabilire cosa in questa nuova stagione globale la fiscalità generale può pagare e cosa invece deve essere finanziato dai singoli con il proprio lavoro. E' un passaggio chiave del contratto sociale italiano che nel Novecento è stato poco pretenzioso con i doveri degli individui e poco attento ai diritti intergenerazionali.
di Edoardo Narduzzi
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