Perché la delocalizzazione non è una jattura certa per l'occidente

Redazione

La vulgata economica spesso postula l'invarianza di tendenze in atto. Un trend poco messo in discussione è che la produzione continui a spostarsi in Asia o verso altre piazze a basso costo del lavoro. Secondo alcuni, tuttavia, non è affatto detto che sia così

di Francesco Galietti

    La vulgata economica spesso postula l'invarianza di tendenze in atto. Un trend poco messo in discussione è che la produzione continui a spostarsi in Asia o verso altre piazze a basso costo del lavoro. Secondo alcuni, tuttavia, non è affatto detto che sia così. Il periodico americano di affari internazionali, Foreign Policy, ha appena dedicato per esempio una lunga inchiesta all'inversione nei flussi produttivi globali a firma di Vivek Wadhwa. Per dirla con uno slogan: meno Cina, più America. Gli scettici penseranno che sia un astuto escamotage editoriale, un'idea per cavalcare l'onda montante dei dibattiti politici americani in vista delle elezioni presidenziali, tipico momento in cui i temi occupazionali godono di enorme visibilità. Eppure dopo vent'anni di off-shoring (l'espressione con cui gli americani indicano ciò che noi chiamiamo delocalizzazione, il trasferimento cioè di fabbriche e interi processi produttivi in paesi a basso costo del lavoro), la rinuncia al presidio dei processi non è più così scontata.

    Dopo tanto off-shoring, è l'ora dell'on-shoring: produrre in casa ed esportare anziché produrre fuori porta e importare. Sbagliato credere a una forma trita e ritrita di patriottismo economico, fuorviante ipotizzare una riedizione di mercantilismo colbertiano. E' vero, diversi colossi americani hanno già annunciato il rimpatrio delle produzioni – è il caso di Dow Chemicals – ma a corroborare questa teoria è soprattutto l'avvento di nuove tecnologie e l'opera di proselitismo di autentici geni a stelle e strisce come Dean Kamen, divenuti loro ambasciatori presso il grande pubblico. Il caso più citato è quello della stampa 3D, il processo produttivo che consente di “stampare” oggetti tridimensionali. Questione di costi e di flessibilità, anzitutto. Stampanti 3D per bricolage costano poco più di 1.000 dollari e si trovano su Internet, i prezzi delle macchine più grandi e complesse partono dai 10.000 dollari. Il risparmio è soprattutto nei costi unitari di produzione: una protesi di arto umano prodotta con stampa 3D costa un decimo di quelle tradizionali. La flessibilità, poi, sta nella possibilità di personalizzare all'infinito modelli virtuali e stamparli subito spendendo poco o nulla. La globalizzazione ci ha abituati alla delocalizzazione, mentre il futuro prossimo potrebbe essere all'insegna della produzione locale.

    Per alcuni osservatori, lo spauracchio è l'idea di un mondo autarchico dove chiunque fa da sé e al Charlie Chaplin di “Tempi Moderni” si è sostituito un artigiano new age. L'ispirazione è fornita anche da suggestioni e mitologie parallele. Lo scrittore di fantascienza Cory Doctorow – celebrità del circuito neotech – in “Makers” ha proposto uno scenario fantascientifico in cui artigiani del futuro competono con le grandi corporation. Un messaggio non appropriato, forse, dal momento che la dicotomia piccolo artigiano autarchico/grande corporation appartiene soprattutto ad altre epoche. Quella attuale è invece una visione che riprende tratti della cultura hacker, dell'informatica indipendente, della creazione di comunità fondate sulla capacità di condividere nuove idee e proposte. E che, al tempo stesso, ha bisogno delle grandi corporation per operare. I next-artigiani saranno infatti grandi “personalizzatori”, capaci di operare su scala globale per quanto riguarda la scelta dei fornitori di componenti, l'accesso ai canali di distribuzione, il ricorso a tecnologie innovative. Chris Anderson, fondatore della bibbia futurizzante Wired e grande teorico del Nuovo Rinascimento al cui centro è il next-artigiano, fa l'esempio di Local Motors, una piccola società di Boston la cui attività consiste nella progettazione e nella produzione di automobili su misura. Ebbene: Local Motors non produce tutti i componenti del veicolo ma li acquista in ampia parte da colossi mondiali.

    Questo articolo è stato pubblicato sul Foglio di giovedì scorso (26 luglio)

    di Francesco Galietti