L'orrore di Stresa, oltre la demagogia
La manomissione della funivia non si spiega nemmeno con la logica economica
Abbiamo un problema con il concetto di rischio. Tendiamo a rimuoverlo o a fuggirne, mai ad affrontarlo con gli strumenti corretti. Per mettere il rischio tra parentesi e spostarlo in un luogo sospeso abbiamo inventato l’implausibile, inutilizzabile, principio di precauzione. Una stramba idea secondo la quale bisogna temere tutto, qui e ora, perché un giorno potrebbe dimostrarsene la pericolosità. Così il rischio da tema specifico diventa un nulla generico, un indimostrato e invisibile dal quale però discendono, per precauzione, misure difensive e interdittive. Il rischio, così, da concreto che è per definizione, diventa presunto nell’uso ordinario. E l’Italia, campione di precauzione collettiva, è anche il paese con uno dei minori tassi di assicurazione in Europa, perché del rischio non amiamo occuparci né intendiamo fare qualche piccolo sforzo per gestirlo in anticipo.
La premessa è un po’ lunga ma ci aiuta ad avvicinarci all’assurdo accertato riguardo al terribile incidente della funivia di Stresa, con ragionevole fiducia nelle indicazioni (pur se un po’ parossistiche) della procura di Verbania. Anche il secondo forchettone è stato ritrovato e c’è la ragionevole certezza che quest’ultimo e l’altro già individuato siano serviti a disattivare il freno di emergenza, il meccanismo di blocco che assicura la sicurezza delle cabine di una funivia di fronte a qualunque tipo di avaria del sistema di movimento. La manomissione, a quanto si capisce e secondo ogni evidenza, è stata volontaria. E qui arriviamo alla rimozione del concetto di rischio, applicata a un caso oltre il limite della nostra logica. Non c’è alcun senso in quanto è stato fatto. Non può valere neppure la spiegazione legata al profitto, al desiderio di mandare avanti l’impianto. O meglio, quella è stata probabilmente la ragione della scelta fatta dai responsabili dell’impianto, ma la logica economica, chiamatela ricerca del profitto se volete, non ha nulla a che fare con l’assunzione di rischi fuori da ogni possibile equilibrio con i ricavi.
Spiegandosi meglio: per un operatore economico non avrebbe senso affrontare pericoli non paragonabili con i propri ricavi attesi, perché enormemente maggiori, addirittura appartenenti a un altro ambito, come lo è mettere a rischio la vita di altre persone. Eppure, a quanto si è saputo, lo hanno fatto. Hanno rinunciato, con una manomissione volontaria, al meccanismo che garantiva la sicurezza del loro servizio e della loro attività economica. Una scelta che può appartenere solo a un mondo in cui si è persa la nozione di rischio. L’indignazione è arrivata puntuale, con un nutrito gruppo di politici, una volta tanto alleggeriti dal ruolo di principali responsabili di un disastro, e quindi scatenati nella richiesta dei trattamenti più duri per i colpevoli. Lo hanno fatto in tanti, e con una certa varietà di schieramento, spesso con l’immediatezza e la laconicità di un tweet. Ma, fatta la perorazione per l’ergastolo, sarebbe bene che si dedicassero invece a recuperare per primi loro nell’attività legislativa il concetto di rischio. Liberandolo dalle esasperazioni del principio di precauzione e riportandolo nella ordinarietà. Vale anche per il lavoro (per la sicurezza ieri si è manifestato, ma dopo l’emozione per la tragica morte di Prato è tornata la abituale e colpevole disattenzione) e vale per tanti altri ambiti, a cominciare dalla mobilità e dalle strade. La pandemia ci ha costretti a misurare, con il massimo possibile di razionalità, il rapporto tra le nostre azioni e il rischio. La fatica con cui l’abbiamo fatto, e con cui ci sono stati imposti i comportamenti più opportuni, ci è ben nota. Almeno questa lezione potrebbe restare, per uscirne, come si dice, migliori almeno in un aspetto.