editoriali
L'abuso di cronaca nera è un delitto
Gli omicidi di Senago e di Roma, e la morbosità di tv e giornali, che portano a banalizzare la parola "femminicidio"
L’abuso di cronaca nera dovrebbe essere sanzionato, non certo in tribunale ma nelle coscienze, forse nella cosiddetta deontologia. La cronaca è un dovere professionale dell’informazione, ma dubitiamo che il diritto di cronaca significhi infilare il naso nelle nefandezze, indugiare sui particolari raccapriccianti, sullo scempio, premere sul dolore dei famigliari, sulla devastazione umana della madre dell’assassino o sull’introspezione psicologica d’accatto (“il killer portava i pantaloncini corti”, “era arrogante”, “preparava i cocktail con quelle stesse mani con le quali uccideva”). La televisione, presagendo il sangue e l’orrore, aveva iniziato già mercoledì. Ma è da giovedì sera, cioè dalla confessione dell’omicida di Senago, dal ritrovamento dei poveri resti martoriati della sua vittima, e poi dall’omicidio della agente di Polizia a Roma, insomma dalla scoperta delle due donne assassinate, che si è scatenato uno squallido circo che purtroppo già ben conosciamo. La descrizione delle fiamme che avvolgono i resti della giovane donna incinta di sette mesi, il dettaglio da camera autoptica che si sofferma sul punto del corpo da cui le fiamme sarebbero scaturite (“dal basso”).
La Rai, e quelle trasmissioni di solito dedicate all’entomologia politica che improvvisamente si riempiono di cronaca nera, chissà, forse per mettersi al riparo da giudizi politici pericolosi in tempo di cambio di regime a Viale Mazzini. E poi anche i giornali che impegnano fino a dieci pagine, spingendo la propria dissipazione a un racconto che annulla il fatto e si concentra sul contesto: Milano che si tinge di nero, la movida che diventa diabolica, i bar come luoghi oscuri, persino i cocktail che si trasformano in “intrugli”. Un tempo i maestri del giornalismo dicevano che la cronaca nera non si commenta. Ed è dunque non solo incivile, ma anche segno di degrado professionale. Com’è incivile, e degrado professionale, anche l’esibizione d’una continua indignazione morale che diventa spettacolo. E si accompagna alla banalizzazione della parola “femminicidio”.