Estate con Ester

Un salto nel fatalismo di fronte al naufragio della barca affondata a Palermo

Ester Viola

La storia di questi giorni è una storia di imbarcazioni forti, ma affondate lo stesso. Nell'affanno di ricostruire cosa sia successo la versione delle cose, almeno la principale, è lei: la punizione

Il mare è cattivo, è cattivo non da ieri, da sempre. Anche quando sembra olio, anche se non è oceano. La storia di questi giorni è una storia di barche forti e affondate lo stesso. C’è un tycoon che a Londra era Bill Gates, c’è il testimone decisivo nel processo che lo riguardava, grande amico e incidentalmente presidente di Morgan Stanley. C’è l’avvocato che ha vinto il processo della vita di parecchia gente. Che era una vita presumibilmente favolosa. Un viaggio intorno all’isola più bella del mondo, la Sicilia, per una festa lunga un mese.
 


Tutti quelli del mare di qui che ho visto, sull’isola d’Elba – capitani di porto, gente che è andata a vela una vita, gente che dentro l’acqua ci campa, gli elbani – negli ultimi due giorni avevano la stessa domanda: una domanda che si ferma al soggetto e non contempla un verbo, perché è senza risposta, è solo per constatare l’assurdo. Ma un Perini di 56 metri. Che per loro è come dire inaffondabile. Una barca da tempeste che è andata a picco in dieci minuti. E allora cercano di spiegarsi tra loro con le ipotesi: ma se non è stato l’albero d’alluminio, che non è spezzato. Se non sono state le vele lasciate aperte. Se la barca accanto è uscita sana e salva. Se non è stato tutto questo, non è stato niente. E quando non è niente, allora è Hybris. La dea che arriva quando il microbo umano si sente troppo potente.
 

La versione delle cose, almeno la principale tra quelle che ho letto, è lei. La punizione. Siamo degli imbecilli seduti su una tanica di benzina: il Mediterraneo va a fuoco e qui si cerca il posto al ristorante. Quindi pure a trecento metri dal porto in una giornata tranquilla Hybris si ritorce contro, il dies irae non lo vede il radar, non lo vedono i marinai, è la vendetta del mondo scagliata contro quello che si pensava il più capace dei figli, e ora è ridotto a essere il figlio più debole, ecce homo che non sa più che fare. Così si legge il giornale, si ascolta la televisione aspettando un segno, l’indizio, l’errore che renda possibile la dismissione di responsabilità: poteva succedere, ed è successo. Che è più o meno il pensiero che ci manda a dormire la notte quando i giorni sono i malamenti. Si potrebbe allora fare un salto più lungo nel fatalismo e salvarci. Non è paura come la stavamo aspettando, questa. Non Phobos. Il figlio di Ares, dio della guerra, e di Afrodite, dea della bellezza. La paura nuova che ci abita è molle di fango, non splende e non combatte.
 

L’hanno trovato i greci infallibili, questo terrore delle cose del mondo, ed è Ananke, la dea che ha più forze di Zeus. Nessuna rotta, “solo quel puro e cieco caso che i greci temevano più di ogni guerra, il modo di vivere navigando a vista tra gli scogli. L’incapacità di decidere e dunque la resa definitiva ai capricci della sorte e del destino”. Neppure gli dèi sfidano Ananke – e allora noi? Forse non è tracotanza, non è una conseguenza diretta di qualcosa che dipendeva da noi. Perché qui dipendeva dall’essere quella barca nei cinquanta metri in cui non doveva stare, cinquanta metri di tutto un mare. A quello stesso mare che ha inghiottito tutte le possibilità di rimettere insieme i pezzi, non gli interessa. Pure a non voler cucire metafore odiose, è una storia di questi anni senza definizione, senza verità e senza risposte. E chissà come si chiama, in greco, quando sei costretto a scegliere anche da che parte della paura devi stare.

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